Quinto Potere di Sindey Lumet. Noi siamo le illusioni

Creato il 15 luglio 2011 da Spaceoddity
"Uomo di mezza età lascia moglie e figli per giovane donna senza cuore... ma l'hanno già fatta questa storia, L'angelo azzurro, con Marlene Dietrich ed Emil Jannings." Così la bella Diane (Faye Dunaway) riconosce e riassume la storia che la riguarda. Ma Quinto potere (tit. or. Network, 1976) non parla della vita privata di una tenacissima direttrice dei programmi o di nessun altro. A meno che, sia chiaro, questa vita privata non si possa riassumere in un plot noto e questo plot non sia ragione di successo commerciale. Quinto potere di Sidney Lumet è un metacolossal cinematografico, che condivide con Quarto potere di Orson Welles - cui il titolo italiano vuole porlo in continuazione - la tematica della realtà contrapposta alle illusioni e diverse altre tematiche, ma non quella che chiameremmo la trama o il modo di affrontare i problemi.
Propriamente Network racconta la storia di un giornalista, Howard Beale (Peter Finch), licenziato senza troppi perché dalla sua rete, che durante la puntata d'addio del suo telegiornale serale cattura l'attenzione del pubblico minacciando un suicidio per la settimana successiva. Il giorno dopo Howard ottiene di ritrattare in diretta il messaggio già trasmesso e seduce un numero altissimo di spettatori - e di critica - con un linguaggio farneticante e vivo. Il canale, in crisi economica, si vede costretto a sfruttare l'insperata popolarità del singolare editoriale di Howard Beale. La prima ad accorgersi delle pontenzialità è proprio Diane, che ha l'occhio abituato alle statistiche e al successo e convince con diverse strategie due diversi responsabili: la giovane promessa della rete, il rampante Frank Hackett (Robert Duvall) e l'eterno amico di Howard, Max Schumacher (William Holden), a fagocitare l'uomo all'interno del meccanismo perverso di una televisione che fagocita e trasforma tutto.
Quinto potere è un film molto duro: e, tuttavia, la regia misurata di Sidney Lumet e la scrittura molto intellettuale e spesso ironica di Paddy Chayefsky raffreddano la tensione attorno ai temi scottanti di cosa voglia dire vivere di fronte a uno schermo che si proietta sulle brame più intime per carpirle tutte e trasformarle in affari. Non è il medium, lo strumento che in Quarto potere indagava sulla vita di Kane e la ricomponeva sotto forma di film, a interessare qui, in Network: bensì quello che accade quando questo processo viene mediato dalla visione economicista (Il mondo è un insieme di corporazioni, il mondo è un businness), cinica e piuttosto deprimente del cannibalismo senza epica e senza religione, visioni senza Dio, predicatori senza buone novelle. Tutto è suggestione, perfino - e anzi ancora più - quando è la suggestione stessa a ribellarsi:
Ascoltate: siete voialtri la realtà. Noi siamo le illusioni.
Nella relazione fallimentare tra Max e Diane, nella sofferenza di una vita normale e reale, di una famiglia vera intravista attraverso il dolore, tutto ciò si soppesa con un'umanità insperata. La donna (indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia) vi constata - sicuramente senza impararlo - che una storia non è un copione e che la si può distribuire, forse vendere, ma intanto la si vive. L'uomo, senz'altro molto emotivo, ma almeno orientato all'esistenza e alla realtà,  le dichiara il suo amore, il suo bisogno di vita, il suo rifiuto di adeguarsi ai format preconfezionati, ai messaggi pubblicitari: Non io, Diane, non finché potrò provare piacere, sofferenza e amore.
Quinto potere di Sidney Lumet è la storia dell'Howard Beale's Show all'interno del suo network, dei meccanismi che l'hanno determinato, prodotto, poi rinnegato, sfruttato; è la storia di una compresenza sciattamente estranea ad altre polarità esistenziali che non siano profitto-non profitto. Il successo non viene neanche rivisto come canale di comunicazione, perché non c'è messaggio che non sia il profittare delle bramosie del pubblico per soddisfare la propria. Non ci sono strategie di marketing, leadership, non c'è la competetività delle aziende nell'arena della globalizzazione: il linguaggio economico è l'unico che consenta a persone sole di "capirsi", di superare in riunioni di lavoro la distanza che li separa, è l'unico che consenta loro di decodificare il mondo e di trarne profitto. Ma non di interpretarlo, di farsene intelligenti.

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