Parecchio deludenti, al limite del preoccupante, i risultati del sondaggio sulla questione delle quote rosa pubblicato l’ 8 marzo da Repubblica.
Verissimo, non si tratta di un sondaggio con valore statistico, ossia effettuato in base a criteri scientifici comprovati: lo stesso quotidiano lo precisa (si tratta di quelli che, nella normativa dell’Autorità che ne regolamenta la pubblicazione sui quotidiani, vengono definiti “inchieste”, non “sondaggi”: ma si sa, in Italia la propensione ad eludere, se appena sia possibile, la corretta etichettatura dei prodotti non è certo appannaggio esclusivo dei bottegai).
Però qualche indicazione ne viene fuori: fortemente demoralizzante, se accogliamo l’ipotesi che la platea dei lettori di Repubblica dovrebbe essere – quanto meno moderatamente – progressista, aperta, illuminata.
Intanto il numero di quanti hanno risposto al sondaggio – nemmeno 3500 dalla sera del 6 marzo al pomeriggio del 9 marzo – appare davvero esiguo.
Per la verità non sono riuscito a trovare dati confrontabili sulla partecipazione del pubblico a questo tipo di “sondaggi” del quotidiano. E’ facile però verificare che “sondaggi” su argomenti in qualche modo assimilabili, di carattere politico (liste bloccate, valutazioni su ministri in carica od in pectore, incontro Renzi-Berlusconi) pubblicate sul Corriere della Sera, tra gennaio e febbraio, hanno partecipato almeno attorno a 20.000 lettori, spingendosi in un caso a quasi 45.000.
Credo sia difficile contestare che, evidentemente, i lettori di Repubblica non appaiono appassionarsi particolarmente a questo tema .
Ma ancora più deludenti e scoraggianti sono i risultati delle risposte di questo manipolo di persone: a tutte le domande poste dal sondaggio, le risposte sostanzialmente avverse al metodo delle quote riscuotono dal 50 al 54 per cento dei voti, di contro al 44% delle risposte favorevoli (la differenza è determinata dai “non so”).
Il più vieto degli argomenti tipici di tanti ostinati conservatori (anche se spesso condiviso da radicali snob), e cioè che si tratterebbe di “un sistema impositivo che non fa onore alle donne”, riscuote l’approvazione del 53% dei partecipanti. Già, perché farebbe invece onore, agli uomini e alle donne di questo paese, il fatto che la partecipazione femminile alle cariche elettorali e politiche sia su livelli superati persino da paesi del terzo e del quarto mondo e da regimi democratici appena emergenti. In sostanza si nega il carattere di emergenza e intollerabilità di un deficit democratico, da affrontare anche con metodi straordinari come quello delle “quote”.
L’alternanza nelle liste elettorali di uomini e donne e l’assegnazione alle donne della metà dei capi-lista viene bocciata dal 54%, in forza dell’argomento che se una donna ha scadenti capacità politico-amministrative non può essere candidata, ed appena il 44 % riconosce che non c’è democrazia senza democrazia di genere.
In effetti, su quest’ultimo punto, in particolare, il sondaggista, non si sa quanto pasticcione o capzioso, ha formulato in termini poco omogenei le motivazioni delle risposte alternative al quesito. Non è esattamente la stessa cosa pronunciarsi sul fatto che la democrazia sia zoppa senza una adeguata rappresentanza delle donne o, in alternativa, esprimersi sull’opportunità che una donna con scadenti capacità politico-amministrative abbia titolo ad essere candidata. Ma considerato il contesto, in ogni caso, il primo argomento assume un carattere del tutto preminente.
Non si vorrà mica sottintendere, infatti, che non siano mai stati candidati uomini di capacità politico-amministrative scadenti, o che la riprova del possesso di tali qualità sia mai stata un requisito per le loro candidature… ?! Perché mai, allora, il requisito dovrebbe porsi soltanto con riguardo alle donne: perché, al solito, se vogliono essere considerate alla pari devono essere migliori?
E non esprime forse una significativa incapacità politica del ceto politico maschile il non essere stati sinora in grado, o peggio non aver voluto, avviare a soluzione questo fondamentale problema di rappresentanza democratica, così da poter evitare il ricorso a norme imperative che si ritengono eccessivamente impositive, rigide, meccaniche?
La sensibilità rispetto alla necessità di avere una rappresentanza di genere adeguata per far valere le proprie, peculiari ragioni in ordine ai problemi di genere che affliggono la nostra organizzazione sociale – e che solo per ignoranza o mala fede potrebbero negarsi – si è rivelata estremamente carente, alla luce dei risultati conseguiti sino ad oggi: che il 50% dei partecipanti al sondaggio dichiari ancora di favorire una “battaglia continua di sensibilizzazione”, rispetto ad una legislazione tesa a far cambiare i costumi, suona parecchio ipocrita e strumentale.
Se queste sono le indicazioni che emergono da un sia pur minuscolo campione di “area progressista” , c’è poco da meravigliarsi se la situazione di genere in Italia sia ancora quella che è: cerchiamo però di evitare di aggiungere alla dovuta vergogna che ne deriva, anche quella di volerne attribuire tutta o quasi la responsabilità ad aree e persone altre da coloro che amano proclamarsi e riconoscersi come forze di progresso e modernizzazione.