Quando un giornale racconta una comunità e in quel racconto la comunità si riconosce – si sente rappresentata – allora i lettori penseranno a quel giornale come “il nostro giornale”. Ma questo concetto, quest’idea con tutto il senso di appartenenza, partecipazione e perfino di affetto che può suggerire, che per molto tempo è stata l’asse portante di molte pubblicazioni locali, sembra ormai far parte del passato. Una reliquia. Qualcosa è andato perso, qualcosa si è rotto, e nell’analisi sulle ragioni di questa perdita è necessario andare molto indietro nel tempo, prima ancora – è bene sottolinearlo subito – della nascita e dello sviluppo di Internet e dei media digitali. Sono queste le considerazioni dalle quali parte una bellissima riflessione A death in the family: How “our newspaper” became “the newspaper” che il giornalista John Robinson ha pubblicato nel suo blog (che consiglio di seguire se già non lo fate).
Robinson ripercorre, velocemente ma con precisione, la lenta regressione subita dai quotidiani americani (con tutti gli apetti peculiari di quella realtà, ma con molti altri in comune con ciò che è avvenuto anche da noi) dovuta alla perdita di gran parte della loro capacità nel costruire senso di comunità attraverso un rapporto forte e diretto con i propri lettori. Un percorso disseminato da tanti segnali, evidenti quanto poco capiti con l’efficacia necessaria per invertire quella tendenza.
La crisi che vivono oggi i quotidiani locali in America diventa, nel racconto di Robinson, l’immagine di un vuoto da colmare, di un ruolo che non si è più in grado di ricoprire. E come sempre succede, quello spazio lasciato libero viene occupato da altri, non sempre con risultati esaltanti… «Sarebbe facile dire che il senso di comunità di Facebook e Twitter ha rimpiazzato quello dei quotidiani, ma l’erosione è cominciata molto prima», precisa Robinson.
Molto prima, quando? Tra gli anni ’60 e ’70 con l’ascesa dei network Tv e i giornalisti televisivi sempre più amichevoli e carini come divi di Hollywood, (così simpatici e “reali” che sembrava che parlassero proprio con te, come potrebbe fare un tuo amico o un collega). L’erosione è poi continuata quando si sono adottate politiche economiche poco lungimiranti e arroganti (si è cominciato a chiedere soldi per pubblicare i necrologi – non è esattamente quello che fa un amico eh?-, e quando le revenue erano al massimo si è stati scostanti con chi cercava di allacciare rapporti commerciali con il quotidiano). E poi: analisi politiche e sociali fatte sempre più spesso su larga scale e guardando i centri di potere ma incapaci di cogliere i particolari, le sfumature delle comunità locali.
E ancora, e ancora… nel ripercorrere questi ultimi decenni, Robinson mette sul conto ancora diversi altri aspetti (e molti ne vengono suggeriti nei moltissimi commenti al post, tutti da leggere con attenzione).
Poi «Internet ha messo tutti d’accordo. Una maggiore scelta di informazioni, di possibilità di connessione e di fare comunità. è diventato “il nostro giornale”. I miei amici di Facebook, i miei follower di Twitter, sono comunità che sento forte tanto quanto quella fisica. Sono amici e sono divertenti e la loro relazione è sicura. Confrontate i commenti su Facebook e quelli di un giornale», scrive Robinson.
Dall’analisi/provocazione di Robinson ne è nato nelle settimane successive su blog e social network un interessante dibattito intorno al tema “our newspaper” vs. “the newspaper”, molto partecipato e di qualità (sono intervenuti tra gli altri giornalisti che ho citato spesso in questo blog Jay Rosen, Jack Lail, Steve Buttry, Dan Gillmor)
Personalmente però l’analisi di Robinson mi hanno fatto venire in mente quello che scriveva un paio di anni fa una delle grandi firme del giornalismo americano, Richard Rodriguez sul declino dei quotidiani locali negli Stati Uniti in un formidabile articolo Final Edition pubblicato su Harper’s:
Non credo che il declino dei giornali sia stato determinato esclusivamente della tecnologia informatica e da Internet. I fattori che limitano i giornali sono probabilmente tanto diversi quanto scontati come la Ford modello T e la pillola anticoncezionale. Ci piace dire che l’invenzione del motore a scoppio ci ha cambiati, ha cambiato il nostro modo di vivere. In verità, abbiamo costruito la Ford T perché eravamo già cambiati, abbiamo cercato di rifare il mondo per poter accoglierci la nostra inquietudine. Ed ecco che adesso possiamo dire: i quotidiani finiranno perché la tecnologia ci costringe ad acquisire informazioni in modo nuovo. E se è così, chi ci dirà che cosa significa vivere come cittadini di Seattle o di Denver o Ann Arbor? La verità è che non vogliamo più vivere a Seattle e Denver o Ann Arbor. La nostra inclinazione ci ha portato a inventarci un cosmopolitismo digitale che inizia e finisce con “Io”.
Quale mondo stiamo costruendo oggi, anche attraverso i nuovi media, per accogliere la nostra “inquietudine” (restlessness è il termine usato da Rodriguez)? Essere cittadini di un mondo digitale, piattamente cosmopolita perché tutto ripiegato su sé stesso, ci fa perdere il senso della nostra comunità locale e il nostro senso di appartenenza si disperde. Aggiungiamo pure che nell’uso retorico di termini volutamente rassicuranti come “amici”, “mi piace” e via di seguito, usati a profusione anche dai social network c’è una banalità di fondo.Tutto vero, eppure questo credo, è solo un aspetto del problema. I media sociali sono anche molto altro.
Così se Internet non è stato la sola causa del declino dei giornali probabilmente, non può essere nemmeno di per sé l’unica soluzione. Serve un cambiamento culturale, nuovi paradignmi. E se la vera sfida per chi fa informazione è quella di ricostruire il rapporto con le proprie comunità di riferimento, diventa fondamentale utilizzare tutti gli strumenti (digitali e non) per moltiplicare il confronto e l’interazione. Perché non basta semplicemente dichiarare di mettere le persone al centro, bisogna farlo davvero, coinvolgendo i lettori sempre più nel processo produttivo. «I quotidiani, gli organi di informazione oggi, possono fare molti passi in avanti per dare alle persone un senso di appartenenza e partecipazione nel loro giornalismo» dice Robinson in chiusura del suo articolo. In quel “molto” ci sono, probabilmente, gran parte delle sfide da mettere in campo per dare un futuro ai giornali (qualunque sia il supporto sul quale siano pubblicati).