Ero ad una cena, qualche sera fa. Non so se avete presenti quelle cene in cui gli ospiti non si conoscono tra di loro ma tutti conoscono il padrone di casa. Una cena in uno spazio aperto, cucina a giorno, sedie scomode e faretti. Tutti fanno i cordiali e si mostrano amichevoli; con un certo savoir faire fingono di essere interessati ad una nuova, senz'altro stimabile, conoscenza. Ecco, io in queste occasioni misuro la mia inadeguatezza e il mio desiderio di fuggire è direttamente proporzionale al passare dei minuti. Ho commesso un grave errore quella sera. Da subito. Durante l'antipasto in piedi ho partecipato a una conversazione semiseria sul fascino del centro storico di Roma e mi sono lasciato sfuggire quello che penso davvero. Non bisogna mai farlo alle cene coi faretti. L'ho detto. Ho detto che quel centro storico di cui si parla per tradizione, quello del popolo povero e solidale, dei presepi e del cinema non è mai esistito; è una bufala cui si crede per inerzia: ho visto la mia fine sul viso delle persone che erano intorno col cocktail Sanpellegrino. Li ho delusi. In un secondo ho impedito loro di dire come doveva essere bella la Roma preunitaria, di maledire gli sventramenti fascisti, di sputare veleno su via della Conciliazione. Infatti, in totale consapevolezza, mi sono andato a rimpinzare di patatine e olive dolci lasciando ciascuno libero di commentare.Più tardi, sarà stato il caldo oppure la sedia scomoda, il risotto non mi andava né su né giù. In queste occasioni generalmente applico una grande forza di volontà, mi concentro solo sul piatto, non ascolto più nessuno, bevo ettolitri di acqua e in qualche modo giungo al traguardo. Mentre imperversava la lotta con i funghi qualcuno mi ha chiamato per nome; ce l’aveva proprio con me. L'ho dovuto ascoltare: “Dunque secondo te lo sventramento per via dei Fori Imperiali è stato corretto?”Ora, non è che io ami dialogare con gli sconosciuti. Anzi, francamente non ho mai nulla da dire perché – chiarendo fuori dai denti – non sono interessato a quello che gli altri, specie se sconosciuti, hanno da dirmi. In ascensore guardo per terra tranquillo e a Latina cammino a piedi lungo percorsi che mi garantiscano il minor numero di incontri possibile. Però, non mi devi provocare. A una domanda come quella uno può reagire in due modi: mandare a cagare tutti, che è la via che preferisco, oppure mettersi pazientemente ad argomentare, pagando il dazio di dover ascoltare obiezioni spesso totalmente prive di fondamento. Ho scelto questa seconda via, per una serie di motivi. Il primo era il risotto.
Tanto per cominciare alla base della domanda si presume di poter giudicare la legittimità di interventi sul cosiddetto centro storico con criteri nati tutti nel dopoguerra; l'idea stessa di centro storico come unità ed entità oggetto di tutela è relativamente recente. Ciò che è scorretto oggi non aveva parametri di definizione netti negli anni Trenta. Non solo: pensare agli sventramenti come precipua iniziativa urbanistica mussoliniana è un luogo comune che vuole anche sottolineare una originalità progettuale, pur negativa, che su Roma era invece semplice continuità col passato, condita semmai da un pesante orpello retorico simbolico. Inoltre, l'intero giudizio non è influenzato esclusivamente dall'idea generale e generalista che si ha del fascismo ma anche dalla lunga, ininterrotta tradizione letteraria e iconografica sulla “Roma sparita” iniziata alla fine del Settecento, continuata sotto il regime sino ad oggi, sostanzialmente fuorviante.Già a questo punto il risotto era diventato un mattone e i commensali mi guardavano come uno a cui è meglio dire di sì. Intellettuali atticisti (nel senso di Stefano Disegni). Io, però, ormai ero partito e mi sentivo in dovere di approfondire e sviscerare la premessa. Mentre nel fervore costruttivo delle città di fondazione si evincono moltissimi elementi di originalità nel contesto di un progetto serio e grandioso di politica agraria e sociale, l’intero gruppo di interventi su Roma è assolutamente all’interno di una corrente ben più radicata e antica che il regime ha percorso con scarse punte di peculiarità seppur con concreti e duraturi risultati.Come al solito se il giudizio si forma senza toccare con mano gli oggetti e le fonti ma sulla base di ideologizzati stereotipi per lo più di carattere politico (e faziosamente politico) si guarda tutto dal buco della serratura ricavandone leggi universali a uso e consumo di un gruppo.Quello di demolire interi quartieri cittadini per migliorare le condizioni di viabilità e di servizio di una grande città, ancor più se capitale, è un modus teorizzato agli inizi dell’Ottocento (bisognerebbe dire ri-teorizzato perché esistono esempi importanti anche nel Cinquecento o prima, ma lasciamo andare) e che ha trovato attuazione in gran parte del mondo occidentale. La storia della città veniva subordinata alle innegabili esigenze della modernità e del progresso. La meravigliosa Parigi che ci affascina, dipinta dagli impressionisti e descritta in molte pietre miliari della letteratura, è il frutto di una delle più radicali manomissioni di un “centro storico” che si sia mai vista in epoca moderna. Infatti tra il 1853 e il 1869 il barone Haussman, prefetto della Senna, mise in atto un grandioso progetto di ristrutturazione urbana finalizzato a promuovere il progresso sociale ed economico della città, riducendo il sovraffollamento dei quartieri centrali, migliorando decisamente la circolazione viaria e ponendo mano alla carenza di servizi. A questo si unì naturalmente un enorme movimento di capitali immobilizzati. Il progetto prevedeva (e attuava) estesissime demolizioni dei quartieri antichi, stratificati, la realizzazione di una nuova viabilità con strade ampie e dotate di servizi, l’isolamento dei monumenti di maggior pregio che ne risultavano “valorizzati”. Nelle intenzioni si inseguiva dunque un modello di città moderna, funzionale e contemporaneamente rappresentativa. Un presupposto certo non secondario fu anche quello di impedire la formazione di barricate e il facile attraversamento cittadino da parte dell’esercito in occasione di moti rivoluzionari e ribellioni. La spinta però verso un miglioramento delle condizioni igieniche e della qualità della vita fu preponderante. Furono creati parchi grandiosi, rifatta la rete idrica e l’illuminazione pubblica, costruite scuole, ospedali, biblioteche; furono riorganizzati i trasporti pubblici. È evidente come non trovasse spazio la teoria del continuum territoriale e urbano che rende così particolare il patrimonio culturale italiano e la cui formulazione è recentissima. Ma andiamo con ordine.I grand travaux di Haussman hanno operato demolizioni per centinaia di migliaia di metri cubi, isolando i monumenti. L’intervento è stato preso a modello da numerosissime città europee: Lione, Marsiglia, Montpellier, Tolosa, Lille, Rouen, Avignone, Bruxelles. Criteri simili basati sull’apertura di nuovi grandi assi viari si trovano a Madrid, Barcellona, Stoccolma, Londra.A seguito di questi avvenimenti una letteratura che ha avuto come capiscuola i romanzieri francesi, con epigoni in tutta Europa, ha fondato nella descrizione del popolo “scomparso” per via delle demolizioni, sul fascino di figure di basso ceto - ladri, puttane, mendicanti, piccoli bottegai .- tutta la sua fortuna. Con uno sguardo sedotto e pseudo documentario i loro romanzi hanno contribuito alla formazione di una idea tutta particolare del contesto sociale presente nei lembi di città scomparsa, contesto in cui è totalmente assente la lettura della complessità e dell’articolazione della società. I cosiddetti centri storici, nell’accezione attuale del termine, non erano altro che lo scenario urbano in cui viveva una variegata popolazione, fatta di ceti differenti, compresa l’aristocrazia, che lì svolgeva l’intero arco delle proprie attività. Tutti i documenti amministrativi contemporanei alle demolizioni (espropri, contratti d’affitto, vendite, analisi delle attività commerciali, censimenti delle aree da demolire) in qualsiasi città siano stati approfonditi lo mostrano inequivocabilmente. Anche a Roma.Il modello Haussman fu concretamente applicato in tutta Italia negli anni immediatamente successivi all’Unità e poi con la proclamazione di Roma capitale. Con le stesse motivazioni, in particolare quelle igienico sanitarie, molte città subirono demolizioni e rifacimenti. La spinta verso la realizzazione di quartieri più sani, centri cittadini con uffici e negozi di livello, fomentava grossi interessi immobiliari; una temperie culturale fortemente influenzata dal progresso tecnico - specie nell’ingegneria civile (pensiamo a Eiffel come simulacro) - tendeva a favorirla. Ingegneri stradali e idraulici cominciarono a trasformare l'aspetto di ampi settori delle città italiane: argini di fiumi, reti fognarie, ponti e nuovi assi viari intorno ai quali poi venivano progettati gli edifici. Alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento era stato previsto per Napoli un programma di risanamento con demolizioni su più di 800.000 mq. Problemi finanziari ne impedirono l’attuazione totale e la parte realizzata procedette a rilento. Comunque fu sventrata. E fu Matilde Serao a raccontare il ventre di Napoli, fatto di un popolino povero e solidale, distrutto e sconvolto per sempre. Facilitando, sopra ogni cosa, la cancellazione di una realtà assai più complessa in cui convivevano ceti di ogni estrazione (la popolazione interessata dal “piano” era stata suddivisa dai tecnici comunali in 7.040 appartenenti alla classe agiata, 34.194 alla classe media e 46.192 alla classe povera).A partire dal 1885 molte altre città adottarono il piano di risanamento: Torino rase al suolo un terzo degli isolati della città vecchia, comprendendo aree da migliorare esteticamente più che igienicamente.Milano, seppur in tono minore, eseguì sventramenti (per esempio nell’area del Duomo) in funzione di un nuovo assetto, accompagnati da letteratura varia sul venter di Milano.Firenze demolì Ghetto e Mercato Vecchio nel fervore di un acceso dibattito sulla necessità di mantenere in piedi edifici storici di pregio artistico. Accadde un fenomeno rivelatosi molto comune durante le operazioni post unitarie: da un lato la denuncia per la perdita di elementi storico artistici, dall’altra la descrizione dei quartieri come ricettacoli di ogni genere di feccia, portata avanti prima di tutto dai fautori delle demolizioni. Proprio i contenuti di tale letteratura di “fiancheggiamento” venivano pedissequamente ripresi dai cantori del “ventre”, volti in positivo. Più che una fonte da cui trarre un quadro sociale questi ultimi costituivano dunque il primo contributo alla cancellazione di pezzi di storia.
(continua)