Poiché qualcuno cominciava a intuire, anche se solo in parte, dove volessi andare a parare, è iniziata a questo punto della cena una sassaiola di commenti rapidi e negativi, lanciata col solo scopo di farmi credere che conoscevano i miei dati (in verità in gran parte ricavati, oltre che dalle sterminate letture degli ultimi vent’anni, da un’ottima tesi di dottorato di Fernando Salsano: Il ventre di Roma, trasformazione monumentale dell’area dei fori e nascita delle borgate negli anni del Governatorato fascista, Roma, Università degli studi di Tor Vergata. Si scarica da internet; grazie all’aggiunta di una serie di elementi miei, di prima mano, ho dato la lettura interpretativa generale) ma che ero un giuggiolone privo di una visione “più ad ampio spettro”. Io a dire “a Napoli più di 800.000 metri cubi” e loro “sì, non è una cifra chiara, mi pare poi siano stati molto meno”; io a dire “Haussmann, Matilde Serao” e loro “be’ sì una parte della letteratura, però… no, scusa ti ho interrotto”. E via così. Cioè io, lottatore gastronomico silente (a parte l’errore dell’antipasto), stavo facendo la fine di un estemporaneo improvvisatore di comizi male informato. Prima mi provochi e poi te la vuoi squagliare? No. Adesso ascolti fino in fondo i motivi per i quali penso che senza il minimo dato oggettivo in mano sei un banale divulgatore di luoghi comuni nascosto dietro il Manifesto (quotidiano).Veniamo a Roma. È ovvio che Roma rappresentasse la roccaforte di un potere temporale e oscurantista della Chiesa che lo Stato laico doveva abbattere. La “terza Roma” dopo quella dell’impero e dei papi doveva nascere come capitale dell’Italia unita. Non possiamo dilungarci qui sulla quantità di idee, ripensamenti e progetti mai realizzati che si riversarono nel dibattito sulle trasformazioni e sulla realizzazione dei nuovi necessari servizi, infrastrutture, uffici. È importante però ricordare che dopo la proclamazione della capitale e prima del fascismo furono approvati tre piani regolatori e otto leggi speciali finalizzati a riorganizzare completamente una città che passava da 200.000 abitanti prima di Porta Pia a 500.000. Con l’apparato statale s’era trasferito in città un nuovo ceto sociale che si doveva integrare con un popolo variegato e concentrato sostanzialmente all’interno delle mura Aureliane. Prima dell’Unità lungo le stesse strade cittadine, le ricche famiglie nobiliari vivevano di rendita nei palazzi intorno ai quali gravitava una popolazione dedita alle attività più comuni e che trovava sostentamento anche grazie all’enorme struttura ecclesiastica che si andava arginando (altro che “Roma sparita” di poveretti). Le trasformazioni dunque venivano eseguite in un clima di forte contrasto tra aristocrazia papalina, popolo che viveva grazie al flusso dei pellegrini e nuovo ceto medio “usurpatore”. Non solo: un irrisolto dualismo si sviluppò tra competenze del potere centrale e potere locale, che favorì un'espansione immobiliare (e una nuova edificazione in centro) che avvantaggiava le nuove classi medie o medio alte, lasciando fuori mercato gli strati più bassi della popolazione (è il fenomeno sociale definito gentrification). La soluzione a questo problema determinò la nascita dei quartieri che poi, a causa di ulteriori ampliamenti, diverranno le borgate degli anni ’50 e ’60 in una continuità che le operazioni fasciste hanno contribuito ad alimentare ma di cui non sono la causa originaria.Accanto alle motivazioni di igiene pubblica e miglioramento della circolazione, accanto alla volontà politica di stabilire una superiorità dello Stato laico, non v’è dubbio che i lavori (con tutte le storture, le speculazioni immobiliari, lo scandalo della Banca Romana etc.) avessero origine dall’esigenza di far diventare Roma una moderna capitale europea, centro di uno stato che voleva dire la sua nel panorama internazionale. E sicuramente le attività diplomatiche vanno favorite attraverso una struttura urbana che garantisca circolazione, rappresentatività, servizi.Uno dei primi interventi fu, e non poteva essere diversamente, la costruzione degli argini del Tevere. Era infatti intollerabile che alle soglie del XX secolo una città dovesse rimanere in balia delle piene; Raffaele Canevari progettò e realizzò l’intera opera, capolavoro ingegneristico indiscusso. Ora non so se qualcuno ha idea di quello che abbia voluto dire fare gli argini del Tevere quanto a sventramenti: chilometri di demolizioni lungo le rive, la sparizione del porto di Ripetta e di Ripa Grande, del teatro Apollo, della loggia della Farnesina. E migliaia di espropri. Dove saranno finite le famiglie che abitavano gli stabili demoliti? Nessuno ha approfondito ma a me viene il sospetto che si siano spostate in nuovi alloggi, o no?Comunque, anche il Ghetto fu sventrato. La zona di piazza delle Cinque Scole fu rinnovata completamente dopo aver raso al suolo un gran numero di edifici e annullato vicoli e vicoletti. Furono lavori su cui era d’accordo anche la comunità ebraica e che culminarono con la costruzione della nuova Sinagoga nei primi del Novecento. Per migliorare la circolazione furono realizzate nuove strade e ponti che comportarono distruzioni a carrettate e che necessitarono di lunghi dibattiti nelle commissioni comunali e in Parlamento. Il percorso di via Nazionale ad esempio non era di facile tracciamento, specie nell’ultimo tratto verso piazza Venezia e numerose furono le proposte prima di arrivare allo stato attuale. Via Cavour, Via Arenula, Via Nazionale, Via Tomacelli, Via del Tritone, Corso Vittorio Emanuele Secondo: una nuova rete stradale necessaria, nello spirito del risanamento, di Haussmann, delle nuove teorie urbanistiche. E centinaia di migliaia di metri cubi di demolizioni, migliaia di espropri con conseguente necessità di nuovi alloggi. Nuove costruzioni, pubbliche e private, che somigliavano a quelle di Parigi, Vienna, Bruxelles, Berlino dettero un nuovo volto ad alcuni settori di Roma. Un nuovo centro, nel quale confluivano gli assi viari di Via Nazionale e Corso Vittorio, fu individuato nella zona di Piazza Venezia, dove il trionfo dello Stato laico doveva essere celebrato dal monumento a Vittorio Emanuele II. L’edificio simbolo della crescita di una nazione nuova, laica, liberale che voleva contare in Europa venne costruito a seguito di una quantità di demolizioni spaventosa: il chiostro del convento dell’Ara Coeli, palazzine medievali, il palazzetto Venezia, la torre di Paolo III col suo passetto. Furono cancellate via di Testa Spaccata, via della Pedacchia e la Ripresa dei Barberi. I lavori per la costruzione di una degna capitale europea richiesero questo e molto altro (pensiamo solo all’espansione edilizia nei nuovi quartieri umbertini). Il luogo simbolo del potere moderno era divenuto piazza Venezia, confluenza di via Nazionale e Corso Vittorio. Non a caso – e, direi, banalmente – fu il centro del potere del regime. Il palazzo e il suo famigerato balcone.
A questo punto la più giovane tra i commensali, capelli a caschetto, camicia di pizzo e infradito scamosciate, che evidentemente non stava più sulla sedia (non perché fosse scomoda, come per me, ma perché voleva sputarmi in faccia tutto il suo fideistico schieramento) mi ha detto: “Scusa, mi sembra un discorso craxiano. Siccome tutti demolivano allora hanno fatto bene pure loro?” Ho bevuto l’ennesimo bicchiere d’acqua frizzante. Il riso nel piatto non c’era più ma ancora adesso giurerei di non averlo mangiato io. Il problema di queste obiezioni è che, effettivamente, non c’entrano una mazza con quello che stai dicendo. Cioè tutti si aspettano che tu sia manicheo ma un conto è il giudizio storico e un conto sono gli elementi singoli, parziali, le categorie specifiche che sommate contribuiscono alla formulazione di quel giudizio. La storia ha già condannato il fascismo e soprattutto le sue espressioni più deteriori, ignoranti, terribili: le leggi razziali, la guerra, la limitazione delle libertà con la violenza. Ma se in nome di questo cancelliamo ogni altro parametro il nostro giudizio diventa talebano. Se noi volessimo giudicare il grande universo degli Stati Uniti - da tutti riconosciuto come un’eccezionale democrazia, la più antica - sulla base del perpetuarsi delle loro leggi razziali fino agli anni Sessanta (con residui fino ad oggi), sulla vocazione guerresca e interventista, sulla diffusione della pena di morte, sulle gravi carenze nell’assistenza sanitaria ai più deboli faremmo una buona operazione di analisi? O saremmo faziosi antiamericani?Detto questo, a me sembra di poter affermare che l’intera politica urbanistica mussoliniana su Roma (ben diversamente dalle nuove fondazioni) non facesse altro che inserirsi nell’alveo già tracciato dai predecessori. Con la sola differenza che la capacità di intervento e realizzazione di opere pubbliche sotto il regime non ha avuto rivali, né prima né dopo. Costruire la città universitaria in tre (dico tre) anni, appena oltre le nuove arterie ottocentesche e nei pressi del quartiere umbertino di nuova realizzazione non è stato altro che un atto di continuità nell’accrescimento dei servizi e nel rinnovamento necessario a Roma capitale. Gli interventi che hanno fatto più discutere (il piccone del regime, sventramenti, sciatti progetti come palcoscenico per le parate di regime sono tra i giudizi più comuni di architetti, archeologi, giornalisti, polemisti, per lo più antifascisti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, con la concretizzazione dell’idea di centro storico) sono da sempre via dei Fori Imperiali, la via del Mare, via della Conciliazione, oltre a una serie di edifici e sistemazioni criticatissimi come piazza Augusto Imperatore. In genere le feroci opinioni pubblicate sono ascrivibili a pensatori che con la bandiera dell’antifascismo in mano si sono proclamati duri e puri svilendo ad alzo zero qualsiasi cosa sia stata prodotta, fatta, pensata in quegli anni. (continua)