Lettori carissimi, vi riporto la seconda parte del racconto inedito scritto da Deborah Epifani. La prima parte potete leggerla QUI
La staffetta di Deborah Epifani (II parte)
Alba. Ore 6.49
Devo farlo io. Così era iniziato tutto. Avevofiato buono, sapevo scarpinare e potevo nascondermi nelle feritoie tra lerocce, perché avevo diciotto anni, ma avevo una corporatura sottile e minutache me ne toglieva almeno un paio.Esoprattutto ero una ragazza. Un ragazzo avrebbe dato nell’occhio, una ragazzano. I ragazzi combattono, le ragazze lavorano o soccorrono chi lavora inmontagna, boscaioli, cacciatori e pastori. Avrei scommesso una mano che nellozaino c’erano almeno delle corde, un antibiotico di contrabbando, alcol e garzepulite. Ecco perché zia Caterina aveva mandato me: io ero perfetta per essereuna pastorella qualsiasi. Non avrebbe potuto farlo nessun uomo del paese, lealtre ragazze erano molto più giovani di me, anche troppo per ingannarechiunque, e le madri di famiglia, con ogni probabilità, erano già stateavvertite e ora stavano nascondendo i figli più piccoli, nella foresta o sottole botole segrete delle cantine.Inoltre,forse più importante, c’era quell’altra faccenda. Ero sua nipote, il Diavolonon mi avrebbe fatto nulla. Avevofreddo. Sbirciai il cielo di porcellana dall’entrata della Cava degli Orchipensando a zia Caterina e ai partigiani che se se n’erano andati in frettacom’erano venuti, come rondini. La stagione che portavano, però, era troppobreve, e non si chiamava Primavera.Mirinfilai i guanti che avevo tolto per riallacciarmi una stringa e mi voltaiindietro. La miniera di pirite era crollata da un decennio a circa quattrometri dall’ingresso, dunque non c’era nulla da vedere. E comunque dovevosbrigarmi. Il fiato l’avrei recuperato una volta raggiunta Cima S. Lorenzo.Uscii allo scoperto, mi aggrappai alle cinghie dello zaino e ripresi a correre.Ilatrati dei Segugi mi braccavano, non mi davano tregua, li sentivo dietro dime, a un passo da me. Come se bastassero i loro ululati per azzannarmi allecaviglie e sbranarmi viva. Si erano spostati, sembravano più vicini dalla notteprecedente.Non mi cercano. Si sono bevutila storia del formaggio e zia Caterina sta bene. Stanno tutti bene.Com’èbravo, il cuore, a raccontare bugie alla testa quando ha paura. Il sudore mi sistava gelando addosso. Avevo fame e freddo. Tanto freddo.Il forno del Beppe. Fa sempre uncaldo, lì dentro! Anzi, ancora meglio, l’agnello di zia Caterina... l’agnellocol sugo, così bollente che ti scotti la lingua per un’ora. Maniente riuscì a scaldarmi di più della neve che in quel momento iniziava acoprire le mie tracce.
Giorno. Ore 12.08
DallaCima S. Lorenzo si vedeva tutta la valle. Non nevicava più; la speranza si eraridotta a due minuti di debole nevischio.Non voltartiMal’avevo già fatto. Fasci di sole tra le nubi creavano sipari in cielo che poisi perdevano molto più in basso. Chiazze di luce coloravano la valle; il paesenon era compreso. L’oscurità era più fitta, laggiù. Scorsi del movimento ma nondistinguevo a chi appartenesse. Non era movimento normale.L’angosciami afferrò allo stomaco. Distolsi lo sguardo e mi chinai per vomitare.Loro hanno i Segugi. Hanno gliScienziati della Morte. Hanno creature mostruose, artificiali, irreali. Noi nonabbiamo nessuno. Nessuno...Larabbia può essere una medicina potente: in quel momento capii che stavosbagliando. Qualcuno ce l’avevano. Io.Miraddrizzai e ripresi a correre.
Sera. Ore 17.32
Il buiocala sempre troppo in fretta, qui in montagna. Non ero mai stata in pianura, nétantomeno al mare, ma avevo sempre avuto quell’impressione. Come se, altramonto, le vette crescessero un po’ di più, allungandosi per andare incontroall’ultimo bacio del sole, e non viceversa.Eraquell’ora in cui le cime si fanno più alte. Pochi minuti e sarebbe stato tuttonero.Io,però, non avevo avuto più ripensamenti, mi ero concessa poche pause e adessopotevo scorgere la Ca’ del Töni allafine della mulattiera, vuota e fredda. Ancora pochi passi e l’avrei raggiunta.Nonudivo i Segugi. Al loro posto era calato un vento tenace che fischiava fortenelle orecchie, togliendomi sensibilità e udito. Il terrore che fossero dietrodi me mi costringeva a girare la testa di continuo.Ormailo facevo meccanicamente. Non riuscivo quasi più a controllare il corpo per ilgelo e la stanchezza. Il nonno diceva sempre che se ti addormenti al gelo, tisvegli più vicino a Dio. Io non credevo nel Dio del nonno, ma se non mi fossimessa al riparo subito, sarei morta certamente.Ancora un passo. Ancora uno...Mettereun piede davanti all’altro era diventato così faticoso! La salvezza miaspettava al chiuso, davanti a un fuoco che avrei potuto accendere, al riparodal freddo pungente, dal buio, dai Segugi che nella Ca’ del Töni non sarebbero mai entrati.L’ultimopensiero mi arrestò di colpo. Per un attimo, l’inerzia della camminata misbilanciò in avanti.La Ca’ del Töni. Cosa stofacendo? Nemmeno io entrerei mai lì dentroLa Ca’ del Töni aveva l’apparenza di unamalga, eppure nessun pastore vi avrebbe mai ricoverato il proprio gregge. Solozia Caterina non credeva a quelle fandonie, sebbene non l’avesse mai dettoapertamente; era un segreto tra me e lei.Perché laCa’ del Töni era un rudere adibito astalla, sì. Ma di quello ne aveva solo l’aspetto e il nome rassicurante.Chi loabitava, però, non si chiamava Toni.
A domani con la terza parte del racconto!
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Racconti inediti d'autore: "La staffetta" di Deborah Epifani (II parte)
Creato il 06 febbraio 2012 da Maila TrittoPotrebbero interessarti anche :