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Vestiti di parole C’era un giorno, in un paese non si sa dove, in un luogo non si sa come, una bambina. Piccola e bionda portava lunghe trecce dorate. Rideva del riso argentino dei bimbi vivaci e più di tutto le piaceva andare a scuola e imparare. Faceva la terza elementare e amava scrivere: la penna sembrava danzare tra le sue dita mentre scivolava veloce sulla riga.
Aveva una maestra severa ma allegra, che amava la musica e il canto. Precisa e puntigliosa come solo le maestre sanno essere, in quella scuola non si sa dove, insegnava tutte le materie. Ma una mattina, in quell’anno non si sa quando, la maestra non tornò più nella sua classe. La piccola scolara seppe che era andata via per sempre, tra sé pensò che era andata in un luogo, molto oltre le nuvole, a suonare il suo il pianoforte a coda per bambini di un universo lontano. Ci pensava e sorrideva.
Dopo la maestra, arrivò una supplente e l’anno successivo un’altra maestra.
La bambina cercava d’imparare ma le parole fuggivano e più cercava di trattenerle e più si allontanavano: accenti, doppie, verbi, li sentiva avvicinare e poi svanivano per una strada non si sa dove. E mentre le parole continuavano ad andare per conto loro, anche gli anni passarono, la bambina divenne una ragazza e poi una donna. Smise presto di andare a scuola e imparò un mestiere. Divenne una sarta, le sue mani abili, un tempo così veloci a scrivere, cucivano e ricamavano per la gioia dei clienti. Confezionava abitini per bambini.
Le piaceva il suo lavoro ma un sogno ogni tanto la rattristava. Tutte le notti sognava un grande libro su cui scriveva tutte le parole che nel tempo erano scappate: era la lista delle parole che mai aveva imparato e si era fatta lunghissima, interminabile.
Al risveglio pensava “Ecco dove sono le mie parole”. Ma era un sogno e al mattino tornava allegramente al suo lavoro, sperando segretamente che un giorno le sue parole sarebbero tornate da sole, così come si erano allontanate.
Un giorno al mese, di solito il primo lunedì, si recava ad acquistare le stoffe per confezionare i suoi abiti.
Era Aprile e aveva già terminato tutte le stoffe, così, benché fosse solo il venti del mese, si recò ad acquistarne delle altre.
Arrivata di fronte alla saracinesca del suo fornitore abituale, scoprì si era trasferito in una grande città non si sa dove.
Tornò a casa, cercò freneticamente nelle pagine gialle e alla voce “tessitori” trovò un annuncio: “Si disegnano stoffe personalizzate”.
Si mise in strada, e mentre camminava svelta, un’idea si fece largo nella sua mente. Far stampare le parole sulle stoffe. Stoffe con le parole accentate, con gli apostrofi, i verbi, gli articoli, gli aggettivi, i pronomi... Il tessitore in un primo momento sgranò gli occhi, poi pian piano si lasciò conquistare dall’idea e qualche tempo dopo le pezze di stoffa erano belle e pronte per diventare dei vestiti.
Parole di tutti i colori e di tutte le dimensioni, alcune quasi invisibili altre grandi quanto una mano, finirono stampate sul cotone e sul panno di lana. Abitini, cappottini, gonnelline, pantaloni, magliette di tutte le misure, uscirono dalle mani della sarta e più cuciva e più le parole riprendevano il loro posto nella sua testa. E quella stoffa diventò così di moda che anche gli adulti si misero in fila per farsi prendere le misure e avere l’abito di parole.
Divenne presto necessario far tessere altre pezze. Alcune avevano le parole dell’educazione, altre del rispetto, altre ancora della gioia e ogni cliente poteva scegliere quali parole voleva portare in giro. La sarta diventò così ricca che dovette assumere dei dipendenti. Nella sartoria delle parole si lavorava allegramente mentre si segnavano le nuove parole da stampare. E anche il conto in banca cominciò a crescere, e crebbe così tanto che la sarta cominciò a pensare a come investire le sue parole... Pardon i suoi soldi!. Manco a dirlo fece aprire una scuola e nacque così “La scuola delle parole”. In questa scuola c’erano regole molto severe: si poteva imparare solo in allegria, ci potevano andare adulti e bambini, ma soprattutto quelli che ogni tanto perdevano le parole in una strada non si sa dove, in un modo non si sa come. (Liberamente tratto da una storia vera, Rosalba Cocco)
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