Magazine Cultura

Racconto ‘Circa il silenzio’ – Giulia Salani (Seconda parte)

Creato il 28 ottobre 2011 da Temperamente

Racconto ‘Circa il silenzio’ – Giulia Salani (Seconda parte)

[vai alla Prima parte]

Non l’ho più visto, e ora la pasta è scotta.

Pazienza, sembra dire il suo volto, quella frase ridicola di lineamenti; l’orizzonte rotondo delle guance, il naso diagonale e le orecchie piccole, minuscole che hanno subito fatto vacillare le mie teorie sul modo in cui gli uomini ascoltano. Perché quelle dimensioni all’inizio mi hanno ingannato, credevo i suoi padiglioni strozzature ostili al dialogo e, invece, si sono rivelati imbuti perfetti per i rumori del mondo.

È andata così: eravamo in un bar, io gli ho detto che volevo un cappuccino e lui è tornato al tavolo con un panino. Mi pare fosse con l’uovo e il cetriolo. Non so che cosa le norme di cortesia richiedano, io comunque non gliel’ho fatta passare; non è che mi sia arrabbiata, ma nemmeno ho ignorato la gaffe. Lui si è scusato. Poi si è alzato ed è andato a recuperare un cappuccino, e nonostante questo il panino l’ho mangiato io. Tentare di riconsegnare il panino o, peggio ancora, fagocitarselo lui stesso sarebbero state azioni dissonanti; sarebbe stato come strappare fogli al documento ufficiale del nostro primo appuntamento. Meglio tirare una bella riga sopra gli errori di calcolo, come nei compiti di matematica, e proseguire.

Ora allungo la mano verso il suo volto per scombinare il pergolato del ciuffo. Dovrebbe essere una spedizione fugace, quella delle mie dita, ma loro si fermano sul bordo della sua fronte. Percorrendolo con i polpastrelli, mi chiedo se il viso sia solo una maschera, se si possa staccare; sembra di no, ma se anche si potesse non lo vorrei fare. Ho scelto io quella maschera di sordo venditore di pesce. Perché non è colpa di una persona essere sorda, così come non è suo merito avere un udito capiente; la cosa importante è che sia intenzionata ad ascoltare.

Lui, in barba alla pasta scotta, lo è.

*

Ripenso al giorno in cui parlavamo, nell’auto che era già sua e non ancora nostra.

Lui guidava, io tenevo il bordo della maglietta sollevato sotto il seno, fra due dita.

Stavo pulendomi la pancia dalle vaghe tracce di gel blu con un fazzoletto di carta, quando ho contemplato la possibilità di togliergli l’embargo. Comunicare sussurrando era, allo stesso tempo, sempre più leggero e più pesante: leggero perché stava diventando la consuetudine; pesante perché temevo che, come tutti gli esseri umani, mi sarei stancata presto di quell’abitudine.

Togliergli l’embargo? Forse, sì. Per salvare lui, me, ma anche la pancia.

*

Mentre tocco questo pane lievitato, medito sul dolore.

Come sarà incontrarlo?

Finora non sono mai stata veramente male, si è trattato di febbri irrisorie che non mi hanno mai condotto al cospetto dell’Urlo; ma questo bambino mi costringerà a gridare. E lo so che è stupido, che un grido non riporterà al balcone il tiranno, eppure nel sentire un solo mio scoppio di voce sarò come un tedesco di fronte ad un paio di nerissimi baffetti.

Il fatto è che a mio marito non gliel’ho tolto l’embargo; mi è sembrata un’incoerenza che non potevo concedermi. Non ho neanche scelto un nome, non ancora, e me ne accorgo soltanto mentre tocco un pane che comincia a scottare. Si muove, con più fermezza di qualche ora fa. Si muove in modo più risoluto. Si annuncia, insomma.

Poggiando la testa al cuscino, lascio che del mio corpo si occupi il mondo materiale; a me solo le sensazioni, le fitte, le riflessioni, i ragionamenti: devo pensare.

Ho solo qualche attimo per stringere la mano di mio marito. Lui mi chiede del dolore e io insisto sul fatto che non gli abbiamo ancora dato un nome, che come abbiamo potuto, che come si farà, che già questo bambino nascendo avrà il corpo nudo, che per colpa nostra anche l’anima uscirà da me senza neanche un vestito. Piangerà? Piangerò anche io, forse.

Rilascio le sue dita, rilascio sospiri.

Un nome; voglio un nome, lo voglio qui davanti al mio trono di madre, voglio che s’inchini così che io possa cingergli il capo con la corona di un articolo maschile, singolare e determinato. Apro e chiudo gli occhi, come ciglia, mentre con il lettino ci dirigiamo verso la sala parto. Le sue enormi porte bianche, deformate dalla pressione del dolore, diventano un portone corposo di legno; poi qualcuno volta il lettino, per passare attraverso quelle porte di castello. Una fiumana di persone ci insegue e viene chiusa dentro la sala dal loro schiocco sordo, e automatico.

Circondo la pancia con le braccia, o almeno ci provo.

Un nome.

La folla vuole un nome, m’imbeve nel catino del dolore, mi sciacqua nelle fitte periodiche come un’onda, mi riporta in superficie il tempo di sospirare e d’illudermi che sia finzione, infine mi ficca la testa nell’acqua. Intanto, due mani tolgono con dolcezza le mie dalla pancia, due labbra mi chiedono di stare calma.

Calma? Come posso stare tranquilla, quando la gente reclama un nome per il mio bambino? È arrabbiata con me, è tormentata; ma io li imploro di non sfogarsi sul mio corpo, io sono malata, soffro della malattia più comune e più bella del mondo, quella da cui si può guarire solo donando la vita al fortunato vincitore della corsa ai propri ovuli.

D’improvviso mi piego in avanti, curvando la schiena. Realizzo, allarmata, che stavo per gridare. Una tacca in più di dolore, e avrei rotto il mio voto; una mezza fitta in più, e avrei scorticato le corde vocali che avevo abituato, circa, al silenzio. La folla ne approfitta per gettarsi con una spallata unanime contro i portoni del castello, creando una fessura luminosa fra i battenti, e la mia mano ritorna alla pancia; la cingo, la stringo.

Un nome, un nome … che cos’hanno tutti, me compresa, con questo benedetto nome?

un’altra fitta

E questo dolore insopportabile è dinamite sotto il mio ventre.

ancora una fitta

Con la stessa tenacia con cui mi aggrappo da una parte al bordo del lettino e dall’altra alla pancia, la mia mente si aggrappa al compito di trovare un nome per questa creatura, per questo grumo, questa cosa di me e di lui che sta per essere creata. Un nome, per darle una forma.

altre fitte

Ma il dolore …

più fitte, in crescendo

Un nome, perché d’improvviso mi fulmina il ricordo di una spiegazione ricevuta in prima o seconda superiore, quando la nostra insegnante ci fece notare che dare i nomi alle cose significa prenderne il controllo, definirne il contorno, diventarne in qualche modo i legittimi proprietari.

innumerevoli fitte

il dolore aspetterà.

innumerevoli spallate

Se devo rompere l’embargo, non sarà per il dolore; sarà per possedere mio figlio.

E, aprendogli il mondo, grido il suo nome.

*

Mio figlio ha una voce bellissima.

(Fine)


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :