(un racconto di Francesca Perinelli ©2012).
[segue]
Le corde, strattonate dal bastone, intonarono uno sbreng sgraziato, mia nonna si spaventò e scivolò sul ghiaccio, per colpa di quelle scarpette deformate dall’artrite dei suoi piedini ossuti. Mocassini con la suola di cuoio consumata (nonna, ma come facevi a indossarle con quel freddo?). Ricadde, attutita dai rami innevati, oltre gli arbusti, nella neve alta. La testa a dieci centimetri dalla mia, le gambe ancora sul marciapiede, e un braccio sollevato che agitava debolmente quel suo machete. Si mise a gridare, e il suo pareva il verso di una piccola aquila in pericolo.
- Aiuuto! Maledetto inverno, maledetta neve! Maledetta me! Aiuto! Aiutaaaateemi!
- Nonna? Nonna, sono io, stai tranquilla. Adesso passa qualcuno e…
E inaspettatamente, al richiamo della povera vecchina si mise in moto una vera e propria gara di solidarietà. Venimmo riportate al mondo civile nell’arco di cinque minuti. Possibile? Ero rimasta tanto di quel tempo sepolta nella neve senza che nessuno si fosse accorto di me e adesso… Ma era comunque, ancora una volta, inutile porre domande fuori luogo.
Nonna mi riconobbe ufficialmente che eravamo ormai dentro casa sua. Solo quando ebbe chiuso fuori dal portone tutto il trambusto delle ultime ore, mi inquadrò per bene. Rilassandosi, ammise di sapere benissimo chi fossi, e cosa ci facessi lì con lei a quell’ora, dentro il suo inespugnabile maniero.
- Tornare a casa, nemmeno a parlarne. Adesso ci facciamo una fettina.
- La fettina no, nonna. E poi sono soltanto le sette.
- …Senti, – mi prese una mano tra le sue, fredde e nodose, e quel gesto mi scongelò di colpo il cuore, – ci apriamo una bottiglia di vino bianco, cuciniamo una fettina di vitella al burro con la cicoria ripassata, poi dividiamo una pera o un mandarino e ce ne andiamo a letto presto. Avverti casa tua.
- Grazie nonna, ma io avrei un esame domattina
- Embé, a questo punto quello che è fatto è fatto. Domani mattina presto mi accompagni dal parrucchiere e poi te ne vai a fare l’esame.
- Lupo, sono io.
- Ma che voce hai? Siderale. Ti stiamo aspettando in sala prove.
- Mi sa che ti sei scordato dell’esame.
- Scherzi? Ho preparato già i foglietti. Ne ho per tutti i gusti, senti qui: Neoclassicismo, Impressionismo, Divisionismo, Simbolismo…
- Fermo, fermo, fermo. Ma che hai fatto? Hai studiato gli ismi? Lo sai benissimo che il prof detesta queste catalogazioni.
- Ma io ho studiato sull’Argan.
- Ma come “sull’Argan”? Quello è un libro del liceo!
- E anche sul Bignami.
- Tu sei pazzo.
- E tu sei in ritardo. Quando arrivi?
- Aspetto che mia nonna si addormenti.
- Perché? Porta anche lei. A parte gli scherzi, che ci fa tua nonna lì con te?
- È una storia lunga, quando arrivo te la spiego.
Mi trovavo circondata da una discreta quantità di -ismi. Potevo riconoscere alle pareti delle nature morte in stile futurista, bottiglie alla Morandi, nudi alla Gottuso, colli lunghi e occhi a mandorla alla Modigliani. Mi stavo rendendo conto di aver avuto sotto gli occhi l’arte moderna fin da bambina. Di averci convissuto, con quelle opere, come aspetti naturalmente insiti nel mio ambiente, senza considerarli -ismi. Così come i francesismi, i tabagismi, i nervosismi e i disinvolti egocentrismi di mia nonna, il mio terzo genitore.
Prima di dormire pretese di guardare la televisione insieme. Aveva quell’odore tipico. La liseuse rosa tutta merletti e fiocchi appoggiata sulle spalle. Sotto, si apprestava a dormire in baby doll scosciato, la mia nonnina. Stavamo bene sdraiate sul lettone, mi sentivo la sua Cappuccetto Rosso. Lei a letto fumava, ovviamente. Io tossivo e tossivo, ma non se ne accorgeva. Oppure, com’è più probabile, se ne fregava allegramente. Seguiva tutta la programmazione di Rete 4.
- Tempesta d’Amore ce lo siamo persi, ormai.
- Sì nonna, peccato.
- Vediamo Scene da un matrimonio e poi spegniamo.
Per me era un mistero come una donna in apparenza cinica e sprezzante come lei potesse passare ore a sorbirsi, in totale concentrazione, storie tanto sciocche oppure melense. E poi, si comportava come se non avesse subito alcuno stress. Io invece ero distrutta, sarei crollata seduta stante, ma avevo stabilito di resistere. Quando finì il programma, mi assicurai che si fosse addormentata profondamente, passando e ripassando davanti alla sua porta per controllare il livello raggiunto dal suo russare. Quindi scesi al piano di sotto, mi infilai cappotto e sciarpa sopra il pigiama e calzai gli stivali senza allacciarli. Imbracciai la chitarra, richiusi pianissimo la porta di casa e mi avviai verso la fermata dell’autobus.
Non pioveva più. Al centro del cielo una falce bianchissima rendeva luminescenti i mucchietti di neve molliccia mescolata a fango, che coprivano in parte il vialetto scuro d’asfalto. Camminavo sopra nuvole terrene. Avvolta dal vapore del mio stesso fiato, mi voltai indietro, in direzione della finestra di mia nonna. Mi era sembrato di sentirla russare dalla strada, ma mi accorsi che era il mio stomaco a rumoreggiare. Avevo ancora una fame spaventosa.
[continua]
Traffic – Freedom rider