(un racconto di Francesca Perinelli ©2012).
Perché annunciare “arrivo in tempo”. Perché crederci per prima. Avesse contato qualcosa. Li salivo a fatica e con lentezza quei gradini sdrucciolevoli del vecchio palazzo di Fontanella Borghese. Ero cosciente, e pure indifferente, del mio ritardo di oltre un’ora sull’apertura dell’appello. A metà della lunga rampa, nel viavai di studenti in preda all’agitazione, alzai lo sguardo: dall’alto, in una pioggia fitta di luce, precipitavano insieme angeli e demoni. Tutto era caos e io ne ero una particella non del tutto ignara. In lontananza suonavano le trombe del Giudizio.
L’atrio di smistamento tra le aule era ampio, e pure il corridoio a lato. Non uno spazio libero dove non si accalcassero anime perse. Pareva l’anticamera dell’Inferno. Uno ripeteva a occhi chiusi con la testa contro il muro, un altro consolava una collega singhiozzante. Tutti gridavano. Mentre cercavo di orientarmi, un tizio che conoscevo ma che non riconobbi subito, per via di quello sguardo spiritato, mi disse che gli era andata male. Gli feci appena:
- Oh.
E sulla sua faccia si aprì istantaneamente un ghigno folle. Scambiò maglia e cravatta con uno che gli veniva incontro, inforcò gli occhiali che prima aveva evitato di indossare e scamazzò a caso i suoi capelli. Si ripresentava al varco, sperando di capitare, non riconosciuto, davanti a un secondo misero assistente. Si rituffò nel mucchio, e lo persi subito di vista.
Intanto avevo individuato l’aula. Fuori delle porte c’era altra gente accalcata. Alcuni stavano perfino in piedi sui banchi accostati tra loro al centro del grande parallelepipedo. Provai a convincermi pensando “Devo entrare”. Ma, lo sentivo anche a distanza, il vuoto al di sopra delle teste era tutto occupato da un grasso, roboante, fastidiosissimo frastuono e io non stavo bene. Ero molto intontita e sospettavo di covare una febbre da cavallo.
Il professore era un tipo capriccioso, saliva su di giri come niente. Mi ero fatta l’idea che disprezzasse lo studente medio, sul quale infieriva con gesti e aggettivazioni poco cortesi, e che mandava via col minimo dei voti, anche se quello aveva ingoiato i fogli dei suoi appunti a uno a uno, per essere sicuro di digerirli bene.
Per l’esame servivano due tipi di preparazione. Il primo era lo studio approfondito delle dispense e dei libri previsti nel programma, come di tutti quelli non inclusi, ma che andavano cercati nelle biblioteche. Andava saputo tutto, in maniera impeccabile. Nel caso toccasse in sorte l’interrogazione da parte di un assistente, che mai avrebbe proposto più dell’assegnazione di uno stitico ventotto.
L’altro modo richiedeva della genialità. Il guizzo, l’intuizione, la sintonia con gli umori e le complesse vie che prendevano i ragionamenti del Prof. Che era, sì, un docente, ma soprattutto un critico d’arte, un amico dei potenti. Uno che a breve avrebbe iniziato a dirigere un’importante rivista di settore e sarebbe stato coinvolto in un clamoroso errore giudiziario. Cosa gliene poteva fottere di sbarbatelli come noi. Durante le sessioni d’esame si annoiava a morte, immaginai, non appena riuscii a fare capolino nell’aula. Dunque, benissimo.
Perché non è che fossi stata una secchiona, come credeva Lupo, anzi. Di corsi da seguire ne avevo avuti veramente troppi quell’anno, per dare peso anche a Storia dell’Arte. Assistetti alla prima lezione, più di dodici mesi prima, e decisi quale sarebbe stata la mia strategia. Il fatto era che il Prof pareva il gemello di mia nonna. Vanesio, presuntuoso e pronto a premiare chiunque avesse mostrato lo spirito giusto nel giudicare un’opera, al di là del nozionismo. Ma soprattutto non gli avesse fatto perdere tempo. Bè, mi sentivo a casa.
Il tipo che aveva cambiato aspetto per ritentare l’esame mi comparì ancora davanti, in preda a una gioia senza freni. Afferrò le mie mani stringendole convulsamente.
- È andata bene! Ho preso diciotto!
E passò quindi a stropicciare altre mani e a dare la notizia a chiunque incontrasse andando via.
Lupo lo chiamarono prima di me. Si sistemò davanti a un’assistente donna, una brunetta acqua e sapone con i capelli tenuti insieme da una composta coda di cavallo. Buon per lui e la sua preparazione da Bignami. Concentrai lo sguardo sulla sua nuca, continuavo a sentirmi due persone insieme, e trepidavo. Ma ecco che fu il mio turno. Si erano liberati sia il professore che l’altra assistente donna, un tipo secco secco e coi capelli corti. Si consultò col Prof, e uno studente prese posto di fronte al titolare della cattedra. Mi sentii crollare il mondo addosso. Non era così che sarebbe dovuto andare. Lei fece:
- Mi parli dell’acquerello di Cézanne.
Uff.
- Nel millenovecentosei, Cézanne…
In quel momento il professore incominciò ad urlare. Quello che era seduto accanto a me scomparve all’orizzonte ancora prima che terminasse la sua flagellazione. Feci a voce più alta, tenendo d’occhio la sedia appena liberata:
- Mi scusi, ma sono un po’ confusa perché mi aspettavo di essere interrogata dal professore. Pensi che l’ho perfino sognato stanotte, saprei ripetere tutta l’interrogazione.
- Va bene, però le ho chiesto…
- No, lasci, la lasci parlare. Anzi, lei, venga qui davanti, visto che c’è un posto libero- , mi fu proposto. Ce l’avevo fatta.
Iniziai un monologo dal sapore onirico che il Prof sorbì con la bocca così stretta che diventò violacea, e gli occhi puntati fissi dentro ai miei. Finché non mi interruppe a bassa voce:
- Basta così.
Quindi, saltato in piedi, zittì gli altri dannati e urlò:
- Vedete questa stronza? È l’unica ad aver capito tutto, tutto! Imparate da una come lei, voi che non capite e non capirete mai un cazzo!
Quindi, come se niente fosse, si mise di nuovo seduto e, a occhi bassi, sospirò:
- Trenta e lode.
- Co- cosa? – Balbettai io.
- Su, se ne vada – la voce sembrò iniziare ad alterarsi – se non vuole che cambi idea!
Detto fatto. Siglata la preziosa cifra sul libretto, mi agganciai a Lupo, che pescai vicino all’uscita tra la folla. Questa iniziò a stringersi a cappio attorno a me.
Ci lanciammo correndo verso il basso per le scale e lo scalpiccio alle mie spalle prese in breve il peso di una cavalcata. Al mezzanino ero già stata raggiunta e circondata. Iniziò a quel punto l’intervista.
- Scusa!
- Senti, te la possiamo fare una domanda?
- Ok, ok. Ma devo arrivare al bar e mangiare qualcosa, sennò svengo.
- E noi ti accompagniamo, che problema c’è?
Saranno stati, non so, una cinquantina o più. Ero stordita e iniziavo a vedere tutto nero, continuando a galoppare verso il basso assieme al resto della mandria.
- Senti!
- Scusa,
Cominciai a cercare le parole e anche le dita di Lupo. Gliele strinsi con forza. Un simile successo non era spiegabile con poco e poi io mi stavo sentendo sempre peggio.
- Dimmi. Ditemi.
- Te l’hanno mai detto che sei uguale a Debra Winger?
[continua]
..