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Il mio racconto di Natale è su come ho scritto il libro «Long Playing una storia del Rock». Bel racconto! direte voi, stai solo maldestramente cercando di farti pubblicità, tante grazie di niente, il racconto se non ti dispiace te lo leggi tu.
No, davvero, non sto facendomi pubblicità. Cioè, se andate a comprare il libro mi fate un favore, perché ho una certa lista di desideri da biffare, ma questo racconto non è marketing per il libro. Long Playing non l'ho scritto per avere un prodotto da vendere. L'ho scritto perché dovevo assolutamente raccontare questa storia. L'ho scritto perché è la mia testimonianza giurata. La musica Rock è stata decisiva nella mia vita e determinante nel plasmare la mia personalità. Mi ci sono perfino ribattezzato Blue sulla copertina di Blue Valentine di Tom Waits.
La storia della nostra musica, che poi è la storia dei nostri musicisti, dei generi, delle scene, delle vite di chi cantava, di chi c'era attorno e di chi ascoltava, l'ho sempre voluta scrivere. Solo che prima ne conoscevo solo un pezzetto, e poi un po' di più, ma mai l'ho saputa tutta come ora. Così l'ho scritta adesso, che la musica rock non interessa più a nessuno. Magari a scriverla negli anni novanta mi ci comperavo un Duetto Alfa Romeo usato.
Oddio, scriverla: riscriverla. Perché scriverla è da un pezzo che lo faccio. Alla fine degli anni settanta scrivevo sul Mucchio Selvaggio. Ero il più giovane (credo... quanti anni ha Guglielmi?) e il meno esperto, ma ero davvero entusiasta di quello che ascoltavo e lo mettevo in parole. In effetti il 1978 è stato uno degli anni più brillanti della nostra musica e gli echi di quella esplosione si sono fatti sentire per un bel po'. Scrivevo i miei pezzi su una macchina da scrivere elettrica, con una carta carbone per conservarne una copia e spedire l'altra al giornale con una lettera affrancata. Poi negli anni ottanta un po' alla volta ho smesso di scrivere per il Mucchio, per mettere da parte i sogni ed occuparmi del mio lavoro vero. I due ultimi pezzi devono essere stati nel 1984 uno su Purple Rain di Prince ed uno sul disco di un gruppetto pop che si chiamava Bronski Beat (stavo cercando di capire da che parte tirava il vento: io quell'anno ascoltavo Born In The USA, Los Lobos, Violent Femmes, Del Fuegos, Bangles e Lloyd Cole and the Commotions). Poi mi sono comprato un Apple Macintosh, che è stato un altro grande amore dei miei (almeno fin che è vissuto Jobs), e su quello che allora era considerato un computer trasportabile (il testone con il borsone per portarlo in giro come sulla pubblicità americana - come vorrei non averla venduta quella borsa) ho cominciato a scrivere un libro intitolato Il Re del Rock'n'roll, che posso dichiarare di aver mollemente scritto per almeno vent'anni, trascinandomi i file in una cartella da un computer (vecchio) all'altro (nuovo).
Negli anni '10 tenevo un blog musicale di successo, Texas Tears, ma era una cosa piuttosto personale e, lo riconosco, piuttosto frettolosa. Un taccuino di appunti non riletti.
In realtà stavo ormai ascoltando del jazz. I dischi rock li conoscevo a memoria, e quelli nuovi che uscivano non duravano mai più di qualche giorno sullo stereo. Il jazz era al contrario per me un campo vergine, dove un disco tirava l'altro come succedeva con il rock nei giorni della mia adolescenza. Scoprivo il magnifico Pithecanthropus Erectus di Charles Mingus, ed attraverso di lui scoprivo Duke Ellington e le sue magnifiche suite. Ascoltavo Birth Of The Cool di Miles Davis, ed attraverso di lui arrivavo al cool californiano ed a Chet Baker (il mio preferito?) scoprendo da dove era venuto Foreign Affairs di Tom Waits. A scoprire i dettagli di ognuno di questi musicisti e generi mi aiutava la straordinaria Storia della Musica Jazz di Arrigo Polillo, a cui mi sono largamente ispirato per la mia Storia della Musica Rock. Poi sono successe alcune cose.
Ho letto Apathy For The Devil di Nick Kent, il celebre giornalista del NME degli anni settanta, con cui ho provato una forte affinità e che mi ha ravvivato la memoria della Londra in cui ascoltavo il glam rock di Bowie e Rolling Stones. Poi ho incrociato la vita di una affascinante giornalista musicale italiana, una scrittrice che aveva vissuto per anni nel music biz musicale. I suoi racconti torrenziali, i suoi aneddoti ed il suo modo di ascoltare i dischi (radicalmente differente dal mio) tutto basato sulle conoscenze personali dei musicisti e sull'importanza delle canzoni sulla sua vita, mi hanno molto colpito. Lei mi ha incitato a scrivere di nuovo di Rock. Assieme abbiamo pubblicato su un paio di rinnovate riviste di carta, siamo stati ai concerti e nei backstage e ho ripreso in mano “il libro”. Pensavo dovessi dare semplicemente un'ultima passata ai miei scritti e di limitarmi a completare e aggiustare i capitoli, ed invece è stato un buttare ogni capitolo, uno alla volta, per riscriverlo da capo a piedi. Il metodo che ho seguito è stato molto diverso da quanto avessi mai fatto fino a quel momento. Io sono uno scrittore impulsivo: ho una cosa che mi gira nella testa, accendo il computer (ancora un Mac, un MacBook Air. Usavo anche un iPad, ma quando le cose si sono fatte serie non ho potuto fare a meno di una tastiera tradizionale) e butto giù tutto quanto.
Poi non ho voglia di rileggere e lo spedisco subito oppure lo pubblico sul blog così com'è. Il giorno dopo lo rivedo on line e scopro di dover correggere gli errori di ortografia. Un mese dopo mi capita di rileggerlo e mi rendo conto che non è grande neanche la metà di quanto fosse nella mia mente e che avrei dovuto applicarmi decisamente di più.
Per il libro è andata diversamente. Lo scheletro di quanto avevo da raccontare era bello pronto e preciso come il progetto di un ingegnere. Sapevo il titolo di ogni capitolo e che periodo avrebbe coperto. Allora mi concentravo su un musicista. Mi mettevo a riascoltare in ordine cronologico tutti quanti i suoi dischi. Leggevo tutti i testi. Sono andato a leggermi le storie raccontate sul web. Mi sono letto tutte le interviste che sono riuscito a trovare. Ogni volta che era disponibile mi sono scaricato su iPad la autobiografia o la biografia. Insomma, raccoglievo tante testimonianze da farmi un'idea molto personale sul musicista. Mi occupavo sempre della sua vita privata, delle sue donne o dei suoi uomini. Scoprivo che aveva cantato delle canzoni per parlare (o lamentarsi) del partner. Non mi fidavo sulla parola di niente di quello che leggevo, tanto meno delle dichiarazioni dei protagonisti, ma usavo ogni elemento per creare un quadro generale che doveva funzionare.
È stato un processo molto forte, faticoso e talora doloroso. In qualche modo era come inventare ogni volta una storia da raccontare, come scrivere la sceneggiatura di un film.
Ho riscritto da capo tutto quello che avevo scritto negli anni precedenti. Ho cancellato le mie esperienze riguardo quei dischi e ci ho messo quelle del musicista. Il processo poteva durare ogni volta una o due o tre settimane. Con qualcuno è stata dura. Van Morrison è venuto da sé e anche Bruce Springsteen, lunghissimo, si è scritto da solo. Bob Dylan è stato tutta una scoperta, molto intima. Ho scritto su di lui così tante pagine che avrei potuto farne una biografia. Phil Spector, Brian Wilson...
La storia degli Stones, da sempre il mio gruppo preferito, ha fatto dei click e per la prima volta tutti i pezzi del puzzle sono andati al loro posto. Con qualcuno l'identificazione è stata così forte che per tutto il giorno, anche mentre le persone mi parlavano, io non pensavo ad altro. I due musicisti che ho preso più nel mio cuore sono stati probabilmente Warren Zevon e Gram Parsons. Il primo lo avevo seguito ed amato fin dall'esordio, del secondo conoscevo distrattamente i dischi. Quando ho chiuso il libro su Zevon ho pianto per cinque minuti per lui. Ero sfinito. Con Gram ci sono andato vicino. Nick Drake è stato una fatica: c'era poco da raccontare e lui non ha mai parlato. Ma in effetti lo ha fatto parecchio nelle sue canzoni. Dicono che fosse praticamente muto, ma nelle canzoni si narrava addirittura con preveggenza. Certi mostri sacri ho preferito guardarli da lontano, come si fa con edifici molto belli in cui non si entra. I Beatles sono praticamente in ogni pagina della mia storia, ma non ho infilato il coltello nella loro personale storia. Lo stesso con gli Who, ho preferito parlare dei mod che dei quattro musicisti. Voglio dire: i Beatles! Che mai avrei potuto scrivere che non fosse già stato detto?
Ho dovuto controllare tutto venti volte perché la mia memoria per i nomi sta svanendo, suggerendomi un indizio per la vita che mi aspetta. Ho una memoria solida per i fatti, ma quando si tratta di ricordare un nome o un titolo è come leggerlo senza occhiali da lettura: ce l'ho proprio davanti ma è così sfuocato che non riesco a evocarlo. Il web in questo senso mi è stato prezioso, non so come potrò cavarmela nelle presentazioni dal vivo: terrò il libro aperto sul banco come nelle interrogazioni al Liceo.
Ho avuto più di un aiuto prezioso. Quando sei così dentro ad un lavoro perdi lucidità e non ne hai più una visione d'insieme. Magari pensi di aver scritto il nuovo grande capolavoro della letteratura nazionale e invece hai riempito mille cartelle di "il mattino ha l'oro in bocca". Così mi sono rivolto a Pierangelo Valenti, che ha riletto ogni capitolo, ha corretto gli errori (di alcuni dei quali avrei potuto vergognarmi per sempre) e mi ha dato sempre con sincerità la sua opinione. La scrittrice lo ha letto e corretto, ed anche un altro amico. Ad un certo punto mi sono reso conto che la casa era invasa dalle pagine del libro (metaforicamente: fisicamente era tutto nel Mac ed una copia era sulla nuvola, casomai la casa bruciasse o mi rubassero il computer) e ho dovuto decidere di dividerlo in due volumi. Dal momento che il libro si sarebbe intitolato Long Playing, le due parti si sarebbero chiamate lato A e lato B. Decidere il punto in cui incidere mi è costato più di un patema d'animo. Non si poteva semplicemente fare a metà. Ogni volume doveva avere un suo senso compiuto, una sua ragione d'essere. Alla fine il lato A ha raccolto tutta la parte classica del rock, quella che per necessità di sintesi ho definito «anni sessanta e dintorni». Dintorni molto elastici: parte dal 1954 con Elvis alla Sun Records ed arriva al Progressive, alla Fusion, all'avanguardia. Il lato B raccoglie «il ritorno del Rock», da Bruce Springsteen e l'esplosione della new wave. Fosse stato scritto in inglese si sarebbe sottotitolato «the rise and fall of rock music», ma in italiano non funzionava. D'altra parte fosse stato inglese il libro si sarebbe intitolato The Long Play.
Poi c'e stata la decisione di autoprodurlo. Se scrivi un libro, quando hai finito non fai altro che consegnare il manoscritto ad un editore, che ti paga un anticipo. Poi aspetti che il libro venga distribuito e se sei fortunato per un paio d'anni ricevi di tanto in tanto un assegno sui diritti d'autore. Cioè, così funzionava una volta. Oggi com'è noto c'è la crisi, anche dei lettori. Il che significa che l'anticipo si è trasformato in una cifra largamente simbolica, che ricavare delle royalty è molto difficile, ed in più sostanzialmente perdi il controllo del tuo lavoro, che non è più tuo. Così io e la scrittrice abbiamo preso la decisione dell'autoproduzione. Non è facile come dirlo: significa che nel momento in cui hai deciso che il libro è finito, non è giunto affatto il momento di riposarti perché il lavoro è arrivato giusto a metà. Avevo pubblicato tre libri di informatica a cavallo del 1990 e nonostante avessi ottime case editrici avevo deciso di impaginarli da me, per mantenere il controllo sul loro aspetto. Avevo usato allora PageMaker, un software rivoluzionario per il desktop publishing, che però non esiste più. In realtà oggi c'è assai poca alternativa. A quanto pare l'informatica moderna ha abbandonato del tutto il mercato prosumer (cioè degli utenti avanzati e/o creativi) e si occupa molto poco anche di quello professionale. Il mercato di oggi è tutto consumer, cioè dedicato a chi acquista i propri costosi device elettronici per giocare ad Angry Birds.
Così con mia sorpresa non ho avuto molta scelta: ho dovuto rivolgermi ad Adobe ed al suo Illustrator, il programma con cui i grafici professionali impaginano le riviste. Un software che per le mie esigenze era decisamente sovrabbondante. E sovrabbondante in soldoni significa: un sacco di lavoro in più. La copertina l'ho immaginata nella mia testa (come anche quella del libro della scrittrice: chissà se ora che non ci vediamo più la terrà comunque buona). Ho scattato la foto in uno studio artigianale e improvvisato composto da una macchina digitale Canon, una scala da imbianchino, un tavolo da giardino e la luce del sole. Dopo aver lavorato agli scatti per un paio di giorni, ho spedito il rullino (virtuale: in realtà ho spedito la sola fotografia che avevo scelto) ad un amico toscano grafico di professione, l'effervescente Elio Capecchi, che in una settimana l'ha realizzata esattamente come l'avevo immaginata.
Poi c'è la distribuzione. Come lo distribuisci un libro autoprodotto? Mica lo puoi ciclostilare. In effetti Ciclostile è stato l'idea di un nome per la nostra società, una casa editrice in miniatura. Ma siccome viviamo in Italia, governo ladro, aprire una società vuol dire essenzialmente pagare un sacco di soldi in tasse e spese più o meno occulte anche se non hai ancora guadagnato una lira (un euro). Allora mi sono rivolto ad Amazon, che accetta l'autoproduzione anche dei privati, ed ho preparato una edizione in eBook del libro, affrontando una serie di difficoltà tecniche da cardiopalma. Nell'era del self publishing non esiste sorprendentemente nulla di automatico ed ogni passo è un sofferto percorso di prove ed errori. Devi fare di te stesso un esperto in tempi super compressi e chi possiede il know how non te lo regala ma cerca di vendertelo. Comunque mi sono dimostrato un ragazzo intelligente e ce l'ho fatta. L'ostacolo più grosso è stato a sorpresa costituito dalla burocrazia americana. Per pubblicare su Amazon Italia (e su Apple Italia) è necessario compilare documenti per il fisco americano, anche se paghi le tasse in Italia, e tecnologicamente il fisco americano non sembra affatto più avanti del nostro. Devi sostanzialmente inviare in America delle lettere con il francobollo ed aspettare molto pazientemente la risposta.
L'idea era di vendere il libro su Amazon sia nella forma cartacea che in eBook, e con i lauti ricavi (in effetti fino al 70% del prezzo di vendita) finanziare un qualche tipo di associazione che permettesse di stampare il libro anche on demand e distribuirlo in modo mirato, per esempio ai negozi di dischi e a qualche catena di librerie (nei miei sogni Feltrinelli). Per il marketing mi sono appoggiato al web ed a FaceBook, oltre alle recensioni degli amici giornalisti. Purtroppo la partnership con la scrittrice del mio cuore è venuta meno perché così va la vita, e al momento il progetto è quello della "società di 1", che sembra il titolo di un disco di Nick Lowe. Ma il libro c'è, le recensioni sono ottime, la risposta è buona (l'eBook è esordito al numero 1 delle classifiche musicali di Amazon, mentre il libro cartaceo è ancora di la da giungere) e soprattutto ho ancora un sacco di cose da raccontare. Sto scrivendo avidamente un libro, che nei programmi dovrebbe essere pronto per l'estate, che è una sorta di diario rock personale. Per capirci una specie di Nick Hornby, ma meglio, molto meglio. In pratica tutto quello di soggettivo che ho tolto da Long Playing ha fatto da seme per... il titolo non lo rivelo ancora, ma è un buon titolo. Anzi due, c'è un titolo a cui sono molto affezionato ed un altro così attraente che sarebbe estremamente più commerciale. Immagino che deciderò all'ultimo momento quale dei due usare. Per il prossimo Natale farò uscire anche il lato B di Long Playing.
Fatto sta che scrivere da dilettante prende molte energie. Intendo dire che se per pagare i conti del droghiere (ma soprattutto le tasse) devi fare un altro lavoro, è molto pesante usare tutto il tuo tempo libero per scrivere. Vuol dire che lo fai di sabato e di domenica e ogni sera, invece di fare una passeggiata, un giro in moto o di andare al cinema. E magari mentre fai l'amore ti viene una grande idea per il titolo di un paragrafo. Il mio sogno per il momento non è quello di costruirmi una villa con la piscina a forma di chitarra elettrica, ma di poter vivere scrivendo, perché ho ancora molte cose da raccontare (ho almeno altri due titoli oltre a quelli di cui ho scritto). In tempi di riviste che chiudono i battenti e case editrici che falliscono quotidianamente, non è quello che si dice un progetto da proporre per un finanziamento in banca.
Conto anche su di voi e poi, come si dice, la felicità è il cammino, non è così?
(vai al sito di Long Playing, una storia del Rock)
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