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RACCONTO DOMENICALE “Noblesse oblige”

Creato il 26 agosto 2012 da Federbernardini53 @FedeBernardini

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Il nobile Paolo Giordano discendeva da uno dei tanti manigoldi cui Enrico VI aveva concesso il titolo di barone. A furia di angherie e di soprusi, la sua casata aveva accumulato immense ricchezze, che suo nonno e suo padre avevano poi dissipato nelle case da giuoco e nei bordelli di mezzo mondo. A lui non restavano che una vecchia casa in quel di Mondragone e qualche ettaro di terra incolta, che divideva con uno stuolo di parenti coi quali era in lite perpetua. Perduti gli antichi privilegi e le antiche ricchezze, egli aveva però ereditato, intatte dopo più di otto secoli, tutta la boria e tutta l’arroganza della sua razza.

“Il sangue non è acqua!” ripeteva di continuo, e quelle parole facevano montare in bestia Umberto, nelle cui vene scorreva un comune sangue borghese che il nobile Giordano disprezzava. Umberto avrebbe fatto carte false pur di potergli sbattere in faccia un blasone più pesante del suo: in quanto a boria e arroganza, infatti, egli non era secondo a nessuno e ricambiava il disprezzo di casta con un disprezzo altrettanto feroce, fondato sulla sua indiscutibile superiorità intellettuale. Non occorreva essere delle cime, del resto, per oscurare il modesto ingegno del nobile, che pur si vantava, nella sua cieca presunzione, di possedere un’intelligenza prodigiosa e una profonda conoscenza dell’arte moderna, materia della quale aveva cognizioni che non andavano al di là di una semplice infarinatura liceale.

Di qualunque cosa si parlasse, egli faceva mostra di saperne più degli altri e pontificava, affettando quell’odioso birignao che contraddistingue la più infrollita aristocrazia partenopea. Era stupefacente la disinvoltura con la quale era capace di passare da uno strafalcione all’altro senza che sulle sue guance, grazie all’ignoranza  che  coltivava  assiduamente, affiorasse il  minimo rossore, come quando si era messo a vantare le magnificenze della sua “àvita” magione –proprio così, con il più sdrucciolo degli spropositi-.

Ma, nonostante tutto, Umberto non era ancora riuscito a mandarlo al diavolo. Si conoscevano da anni, erano vicini di casa, frequentavano la stessa cerchia di amici, gli stessi ristoranti, gli stessi caffè e sarebbe stato imbarazzante oltreché scomodo arrivare a una frattura essendo poi costretto, a meno di cambiar rione o città, ad averlo tra i piedi sempre e ovunque. Ad esser sinceri, poi, anche il nobile Giordano aveva alcune qualità positive: a volte gli riusciva di esser quasi simpatico, gli piaceva la compagnia e quando aveva bevuto in abbondanza diventava cordiale –anche troppo, soprattutto con le signore- e gli usciva di bocca persino qualche motto non del tutto spregevole. Ma soprattutto era molto ospitale, anche se per una forma di mero esibizionismo. Almeno una volta alla settimana, infatti, dopo aver cenato con loro in uno dei soliti ristoranti e aver vuotato più di un bicchiere di cognac in uno dei soliti caffè, invitava gli amici, tra i quali non mancava mai Umberto, a concludere la serata nel suo bellissimo appartamento di via Monserrato.

A proposito di ristoranti…se qualcuno si prenderà mai la briga di scrivere la sua biografia, dovrà dedicare a tale argomento un intero e non breve capitolo. Il nobile Giordano, fra le altre cose, si vantava di essere uomo dai gusti sopraffini. Dell’arte culinaria, in realtà, non capiva e non gli importava un bel niente: qualunque oste gli avrebbe potuto sbolognare una carpa pescata nel Tevere al posto di un’orata. Ciò che voleva, anzi pretendeva, quando si recava al ristorante, era di pagare pochissimo e nel contempo di essere trattato con grande deferenza, come si addiceva a un cliente del suo rango. Un miserabile espediente per illudersi, ma soprattutto per illudere, di godere ancora di qualche privilegio che lo ponesse un gradino al di sopra degli altri.  A Umberto, invece, non importava alcunché degli ipocriti salamelecchi dei camerieri e avrebbe preferito farsi cavare un dente piuttosto che abbassarsi a chiedere uno sconto.

Ogni volta che il nobile Giordano lo invitava a cena, Umberto era costretto ad assistere, con sua grande vergogna, allo spregevole e umiliante comportamento dell’ospite che, arrivato il conto, lo analizzava a fondo, coadiuvato dalla sua occhiuta consorte –della quale varrà la pena di parlare in seguito- e poi, immancabilmente, puntava gli occhi in faccia al cameriere, come un fucile a canne mozze, e gli diceva: -Non ci siamo!-

A quel punto arrivava il padrone del locale e così, ad alta voce e nel mezzo di una sala gremita di avventori, si dava lo scandalo di una contrattazione da mercato levantino, al termine della quale il nobile Giordano lasciava trionfalmente il locale, fiero di essere riuscito a spuntare un buon prezzo e, soprattutto, tra gli inchini e le riverenze dei camerieri e del padrone il quale, anzi che mandarlo all’inferno, lo salutava dicendo: -Arrivederla signor Giordano, è sempre un onore servirla!-

Facevano così perché, in fondo, conveniva anche a loro: era un assiduo cliente e molto spesso si trascinava dietro il codazzo, anzi la corte, dei suoi amici.

Incredibile! Sembrava di essere in uno di quei vecchi film in costume, ne avrete certamente visto qualcuno, nei quali c’è sempre un gentiluomo che, nel corso di un avventuroso viaggio a cavallo, viene sorpreso nel cuore della notte da una spaventosa tempesta e trova riparo in un’orripilante locanda dove, a riceverlo, c’è sempre un viscido ebreo che s’inchina fino a terra, lisciandosi la barba a punta, e gli dice: -Eccellenzaaa,  benvenuto nella mia umile casaaa! In che cosa posso avere l’onore di servirlaaa? Vuole rifocillarsiii? La prego, si accomodi accanto al fuoco, così potrà riscaldarsiii!-

Il gentiluomo si siede davanti a una massiccia tavola dal piano unto e bisunto e il locandiere lo fa immediatamente servire dalla solita servotta alla quale, ce l’ha scritto in faccia, si può liberamente tastare il culo senza incorrere in alcuna sanzione. In tali circostanze il gentiluomo si nutre quasi sempre di zuppe, servite in rozze ciotole di legno, o di arrosti e prosciuga almeno  un boccale di vino.

Terminata la cena, la servotta, con la candela in mano, lo invita a seguirla su per una traballante scaletta di legno e lo introduce nella camera a lui assegnata, la migliore della locanda, ovviamente, posa la candela su un tavolaccio impolverato e, prima di congedarsi, gli augura la buona notte dicendo, con un tono trivialmente ammiccante: -Io sono qua fuori, eccellenza, di qualunque cosa abbia bisogno mi chiami-. Sul significato di quel “qualunque cosa” né il gentiluomo, né io, né voi abbiamo mai avuto alcun dubbio.

***

Ai dopocena in via Monserrato, c’era sempre almeno una  dozzina di persone, gente della media borghesia: professionisti, commercianti, funzionari. Nessuno brillava di particolari virtù e la loro conversazione non si sollevava mai al di sopra della più piatta banalità. Umberto li disprezzava ma non aveva altri amici e poiché temeva la solitudine si era da lungo tempo rassegnato a quel genere di compagnia.

Paolo e sua moglie, Luisa, non erano ricchi, ma guadagnavano abbastanza da poter mantenere una bella casa in affitto e condurre una vita piuttosto agiata. Lui diceva d’essere consulente di una casa d’aste, piccola ma assai prestigiosa, che era stata   del nonno il quale, per pagare i suoi debiti di giuoco e le sue amanti, l’aveva poi venduta a un lontano parente cui, in punto di morte, fece giurare che avrebbe concesso al suo nipote prediletto, Paolo, una qualche sinecura, con annessa prebenda. Lei era proprietaria di una “gioielleria”, così la chiamava, ma in realtà si trattava soltanto di un modesto negozio di articoli da regalo, dove si poteva trovare anche qualche buon pezzo d’argenteria, qualche orologio o qualche gioiellino di poco valore. Cionondimeno Luisa si dichiarava una grande esperta di gemmologia. Non era in grado di distinguere un rubino birmano da un granato, ma le sue sciocche amiche, che ne sapevano ancor meno di lei, non avrebbero mai acquistato neanche uno spillo senza prima ricorrere al suo illuminato consiglio. Non era intelligente e tantomeno colta, ma era scaltra e possedeva un innato senso degli affari. A quasi cinquant’anni era ancora una donna d’aspetto gradevole, ma i suoi modi erano sgraziati, quasi volgari.

Le sole cose che Umberto  invidiasse a quei due erano il lussuoso appartamento e una disponibilità di danaro largamente superiore alla sua. Faceva il giornalista, ma scriveva solo un articolo ogni tanto, per qualche rivista di infimo ordine e guadagnava pochissimo. Non aveva mai trovato o, per meglio dire, non aveva mai cercato, poiché odiava il lavoro sopra ogni altra cosa, un’occupazione che fosse degna di lui. Poteva condurre un’esistenza decorosa solo grazie all’aiuto della sua famiglia e soprattutto a quello di Chiara, la compagna adorata della sua vita, che oltre ad avere un ottimo impiego e un ottimo stipendio aveva anche un appartamento nel centro storico, cosa alla quale Umberto teneva moltissimo; era assai piccolo e anche un po’ malmesso, ma in via Monserrato e non sarebbe andato via di là pur se gli avessero promesso un attico ai Parioli.

Nemmeno a Chiara piacevano gli amici di Umberto, li frequentava solo perché era costretta a farlo: conoscendo l’irresistibile attrazione esercitata su di lui dal gentil sesso, non si sarebbe mai fidata di lasciarlo solo. Era di una fedeltà canina e pretendeva altrettanto da Umberto. A lui le donne piacevano, è vero, ma Chiara non aveva alcun motivo di essere così sospettosa perché, a causa della sua pigrizia, si limitava ad ammirarle o, al massimo, si concedeva qualche galanteria, ma mai e poi mai si sarebbe sobbarcato all’improba fatica di corteggiarle. Il suo amore andava tutto alla sua adorata Chiara e non si può dire che ella non lo meritasse: era di aspetto gentile e altrettanto lo erano i suoi sentimenti e i suoi modi. Pur potendo vantare origini principesche, era una discendente di Baldovino di Fiandra, faceva mostra di una incomparabile semplicità e di una incomparabile modestia. Non aveva la grande cultura di Umberto, ma poteva contare su una vivissima intelligenza e sul dono straordinario di un’istintiva saggezza che, in qualche modo, la rendeva superiore a lui. Nessuno degli amici di Umberto era al pari di lei, eppure ella non li disprezzava, come faceva lui, l’annoiavano soltanto e le facevano un po’ pena. E un po’, forse, gliene faceva anche lui che, a quasi cinquant’anni, era rimasto, per certi versi, un bambino bisognoso di protezione e di affetto materno.

I dopocena in via Monserrato avevano inizio poco dopo la mezzanotte e, solitamente, si concludevano prima delle quattro. Gli ospiti si dividevano quasi sempre in piccoli gruppi spontanei, a seconda delle loro affinità, chi nel salone, chi nello studio, chi in salotto. Si mangiava, si beveva –soprattutto- si conversava. La biblioteca, dov’erano raccolti in un ordine impeccabile e mai violato più di diecimila volumi, che Paolo aveva ereditato da  suo nonno e aveva arricchito con l’opera omnia di autori come Stephen King, Patricia Cornwell e Sidney Sheldon, era il luogo meno frequentato della casa. Lì si andava a rifugiare il “professore”, un vecchio misantropo che insegnava religione al liceo Visconti e quasi sempre, alla fine della serata, veniva rinvenuto in stato precomatoso su una enorme poltrona di cuoio, con un romanzo di Guido da Verona in una mano e, nell’altra, un bicchiere vuoto, come la bottiglia di cognac che giaceva ai suoi piedi.

In un primo tempo, Umberto e Chiara avevano anch’essi provato a inserirsi in quei gruppetti nei quali la compagnia e l’argomento della conversazione parevano più stimolanti, arrivando ben presto a capire che l’uno valeva l’altro. Si erano ormai rassegnati a trascorrere quelle serate intrattenendosi indifferentemente con chicchessia, senza mai sbilanciarsi più di tanto nei loro giudizi e senza mai obbiettare più di tanto su quelli degli altri, calandosi fino agli occhi nella palude delle banalità e dei luoghi comuni in cui sguazzano i conversatori da salotto. Se Chiara riusciva, grazie al suo carattere tollerante e alla sua istintiva saggezza, a non farsi travolgere da quella melma, Umberto ne usciva sempre con le ossa rotte e ogni volta, mentre se ne tornavano a casa, le diceva: -Questa è l’ultima! Non ce la faccio più a sopportare quegli stronzi! –

Umberto, come sappiamo, non era affatto esente da vizi come la boria e l’arroganza ma, in ossequio alla sua etica cavalleresca, non le avrebbe mai sfoderate se non per offendere avversari degni di lui. “Implacabile coi forti e clemente coi deboli”, quello era il suo motto, e con gli ospiti di casa Giordano, non valeva certo la pena di ingaggiare un torneo. Li disprezzava, punto e basta.  Del   loro giudizio  non si curava minimamente, cionondimeno durava fatica a trattenere la sua esuberanza e pativa come un’umiliazione l’esser costretto a conversare di cose senza importanza o, peggio ancora, affettare interesse per le opinioni politiche o i principi morali ed estetici di quella gentucola. Sarebbe bastata una scintilla della sua intelligenza a dilaniarli come una bomba ma forse, anche se avesse voluto, non sarebbe riuscito neanche a farla scoccare, tanto l’incretinivano i loro discorsi.

Per fortuna, verso la metà della serata, poteva contare sempre sul soccorso di due potenti alleati: l’alcool, che alle due di notte dispiegava ormai i suoi effetti terapeutici e soprattutto il tressette, un rito al quale Umberto partecipava con grande sollievo, anche se il giuoco non gli piaceva, perché gli permetteva di scampare al martirio.

Il loro ospite era un fanatico cultore del tressette, che era pronto a giocare sempre e ovunque, con uno zelo degno di miglior causa, considerandolo fra i più ardui cimenti cui mente umana possa sottoporsi. Manco a dirlo, anche in quello, si riteneva un maestro. Quando Paolo gli si avvicinava e, dopo avergli dato un’affettuosa pacca sulle spalle, gli diceva: -Sei pronto?- Umberto si sentiva rinascere e, mosso da repentino entusiasmo, gli rispondeva: -Sempre!-

A questo punto vi chiederete come mai il nobile Giordano disdegnasse gli scacchi e il bridge, certamente più degni di un aristocratico come lui, per dedicarsi al più plebeo fra i giuochi d’osteria. Una sua amica biologa, dando credito a una diceria secondo la quale una trisavola di Paolo avrebbe avuto come amante un carrettiere di Trastevere, avanzava l’ipotesi che potesse trattarsi di un effetto delle  leggi di Mendel, per cui alcuni caratteri ereditari si ripropongono regolarmente a  distanza di generazioni. I più maligni, anche se non sapevano nulla di genetica, aggiungevano che le leggi di Mendel lo avessero guidato anche nella scelta della moglie.

***

Quando giocavano a tressette, Umberto faceva coppia fissa con Luisa e Paolo con Cesare, commerciante di vini. Per conoscere le origini di quest’ultimo, non era necessario ricorrere alle leggi di Mendel: i suoi antenati, carrettieri dai tempi di Pio VI, avevano poi aperto un’osteria in Trastevere, che lui aveva trasformato in un’elegante mescita. I soliti maligni, conoscendo la fraterna amicizia che lo legava a Paolo, arrivavano a insinuare che il famoso carrettiere trasteverino sarebbe potuto essere un comune antenato.

Le partite a tressette non si giocavano solo in occasione delle riunioni settimanali: Paolo Umberto e Cesare, con le rispettive consorti, formavano, per così dire, il nocciolo duro della compagnia, un gruppo ristretto che era solito riunirsi di frequente, come quel 20 dicembre. Erano a cena da Paolo e si godevano la calda atmosfera natalizia, con tanto di ceppo ardente nel camino e di abete sontuosamente addobbato.

Poco dopo la mezzanotte, tracannato l’ennesimo cognac, Paolo si alzò dalla sua poltrona e, dirigendosi verso Umberto, gli chiese con la solita aria di sfida: -Sei pronto?-

-Sempre!- gli rispose lui con sollievo, perché la conversazione, come al solito, aveva già preso una brutta piega. Si accomodarono al tavolo da giuoco; le coppie, come sempre, erano bell’e fatte: Paolo e Cesare contro Umberto e Luisa.

A Chiara e Michela, la moglie di Cesare, il tressette non piaceva, anzi l’odiavano perché, anche quand’erano stanche e avrebbero preferito tornarsene a casa, erano costrette ad attendere che i loro uomini terminassero il giuoco che, a volte, si trascinava sino ad ore indecenti. Se ne rimasero, come al solito, sedute in poltrona, ma con l’animo più sollevato; era quasi Natale e l’atmosfera della festa le induceva a una maggiore tolleranza e le predisponeva ad affrontare l’attesa in modo gioioso, senza temere né noia né stanchezza.

La partita non era ancora cominciata e Paolo faceva già in modo di innervosire gli avversari. Era sempre lui a segnare i punti e ciò dava un po’ di fastidio a Umberto, come se gli altri non sapessero fare le addizioni o, peggio ancora, avessero l’abitudine di falsificare i conti a loro vantaggio. Li segnava su un foglio di taccuino che divideva con un tratto verticale di penna, a sinistra scriveva NOI, una sorta di pluralis maiestatis, grande e in stampatello e a destra loro, in un corsivo minuto.

-Allora, Umberto, hai studiato?- gli domandò col suo odioso birignao, mentre mischiava le carte.

-Io non ho bisogno di studiare tu, piuttosto, dovresti deciderti a farlo, visti i risultati. Ti ho regalato quell’edizione del Chitarrella, che tra l’altro e introvabile e avrei fatto bene a tenermela, e sono certo che non ne hai letto neanche la prima pagina-.

-Non mi serve! Chitarrella, a me, mi fa un baffo! me lo fa a tortiglione!- gli rispose Paolo, facendo il gesto di arricciarsi il baffo destro.

-Dai le carte, piuttosto, vediamo che cosa sai fare-.

Come tutti sanno, il tressette si gioca in silenzio; le uniche parole ammesse durante la partita sono: busso, striscio lungo, striscio, piombo e liscio e busso. A queste poi, benché bandite dalle regole, si aggiungono, soprattutto quando il giuoco si svolge in certi ambienti, come le osterie e i retrobottega delle barberie suburbane, una gran varietà di imprecazioni,  bestemmie e offese sanguinose all’onore personale e familiare non già degli avversari, ma dei compagni colpevoli di un qualche fallo o di non aver capito al volo uno dei tanti segni convenzionali che i giocatori, pur essendo considerata cosa scorretta e infamante, si scambiano di continuo.

Mi pare superfluo sottolineare che tali eccessi non rientravano nei costumi dei nostri giocatori, ma capitava piuttosto di frequente che qualcuno di loro si lasciasse sfuggire una parola di troppo, soprattutto Paolo, e ciò faceva montare in bestia Cesare che, fra i quattro, era l’unico a saper giocare come si deve. Le reazioni del vinaio provocavano le immediate controreazioni di Paolo, il quale era di carattere estremamente suscettibile e, se qualcuno si permetteva di mettere in dubbio la perfezione del suo operato, era capace di dimenticare temporaneamente i suoi illustri natali e di reagire in modo talmente scomposto da evocare lo spettro del  presunto avo carrettiere.

Umberto e Luisa, invece, anche se masticavano amaro, erano capaci di sopportare con stoica fermezza i durissimi colpi che si infliggevano a vicenda e, anzi, avevano l’abitudine di scambiarsi ogni sorta di gentilezze e di lodi quando capitava loro, quasi sempre per puro caso, di azzeccare un colpo particolarmente brillante.

“Speriamo che almeno stasera il carrettiere e il vinaio non ci costringano ad assistere ai loro soliti scazzi!” pensava Umberto mentre Paolo distribuiva le carte. Vi sembrerà patetico e soprattutto ipocrita ma durante le feste di Natale Umberto si sentiva più buono e si comportava di conseguenza. Altrettanto avrebbe gradito che facessero gi altri, probabilmente perché aveva avuto un’infanzia piuttosto infelice ed erano ancor vivi e brucianti,  nella sua   memoria, i ricordi  di tanti  Natali  funestati dalle ire di un padre psiconevrotico e dai deliqui di una madre maniaco depressiva, che aveva la graziosa abitudine, ogni qualvolta addobbava l’abete, di guardare suo figlio con un’aria sconsolata dicendogli: -Umberto, questa potrebbe essere l’ultima volta che mammina fa l’albero di Natale!-

-Allora, due partite a quarantuno e l’eventuale bella a cinquantuno!- proclamò Cesare con voce stentorea.

-Non ci sarà bisogno della bella!- aggiunse Paolo mentre aggiustava le carte.

-Staremo a vedere!- rispose Umberto che, in cuor suo, li aveva già mandati entrambi all’inferno.

La prima mano filò liscia: sei per NOI e cinque per loro.

-Questo è solo l’inizio!- disse Paolo con un ghigno sardonico, mentre Umberto si accingeva a servire.

Una volta aggiustate le carte, Luisa lanciò al suo compagno uno sguardo che equivaleva a un SOS e lui, guardate le sue, capì immediatamente che quella sarebbe stata una mano esiziale.

-Doppio buon gioco!- dichiarò Paolo, che non stava più nella pelle. –Napoletana a coppe e tre tre-.

-Buon gioco anch’io!- gli fece immediatamente eco Cesare, -Tre due!-

Alla fine della mano, Umberto e Luisa dovevano patire, oltre agli undici punti di un umiliante “cappotto”, i nove punti del buon gioco. Venti a zero che, sommati a quelli di prima, andavano a comporre un totale di ventisei per NOI e cinque per loro.

-Ventisei a cinque! è la giusta difff…ferenza- disse Paolo cercando di reprimere un’improvvisa emissione di gas gastrici. Soffriva di ulcera: la cena abbondante e la mezza bottiglia di Cognac   che  aveva  in corpo cominciavano  a  produrre   effetti  indesiderati.

“Buffone di un porco, hai più culo che anima!” avrebbe voluto rispondergli Umberto, ma si morse le labbra e incassò il colpo facendo spallucce.

Al termine della terza mano, con un trentaquattro per NOI e un otto per loro, i giuochi sembravano fatti. Toccava a Luisa  servire.

-Accidenti!- sbottò Paolo, scaraventando sulla tavola le sue carte scoperte. –Me ne hai dato undici! guarda un po’ che cos’hai combinato! napoletana a danari e quattro due! Ma l’hai fatto apposta?-

-Io non sono perfetta come te, mio caro, posso anche sbagliare!- gli rispose lei con una voce acida.

-A sii? prima combini i casini e poi ti permetti anche di fare la stronzetta?-

-A Pa’, ma lascia perde!- replicò Luisa, mentre raccoglieva le carte.

Paolo si chiuse in un ostentato mutismo e da quel momento non ne azzeccò più una. Non reagiva neanche ai sempre più acerbi rimbrotti di Cesare, che vedeva sfuggirgli una vittoria virtualmente acquisita.

Dopo altre quattro mani, che Umberto e Luisa avevano giocato magistralmente, scambiandosi una gran copia di complimenti, la prima partita si concluse col risultato di quaranta per NOI e quarantasei per loro.

Avevano compiuto un miracolo, ma si limitarono a farsi discretamente l’occhiolino, reprimendo qualunque manifestazione di esultanza che, a quel punto, avrebbe potuto avere effetti imprevedibili sul sistema nervoso di Paolo, visibilmente alterato dalla batosta appena subita e dal Cognac che continuava a bere senza tregua.

I giocatori decisero di concedersi una pausa, si alzarono (Paolo cominciava a ondeggiare vistosamente) e andarono a raggiungere Chiara e Michela in salotto.

-Chi vince?- chiese ingenuamente Michela, senza immaginare che quelle due parole avrebbero potuto scatenare un putiferio.

-La prima partita è dei polli!- le rispose Paolo, versandosi una massiccia dose di Remi Martin. E poi, rivolto a Luisa: -Guarda che se fai un’altra stronzata come quella di prima, mando tutto a monte e mi prendo partita vinta!-

A quel punto intervenne Cesare: -A Pa’, ma che stai a di’…penza a giocà bene, piuttosto, che hai fatto un mare de cazzate!-

E lui: -Scusami se te lo dico, Cesare, ma le cazzate le stai dicendo tu, io ho giocato benissimo, sono quei due che hanno un culo pazzesco!-

-Va be’…. Se lo dici te…- si limitò ad aggiungere Cesare, facendo una smorfia con le labbra e aggrottando le sopracciglia. Era ormai chiaro che il suo compagno cominciava a “sbarellare” e decise di tagliar corto, invitando i giocatori a riprendere la partita.

Ripresero il loro posto senza proferir motto: l’atmosfera cominciava a farsi pesante. Paolo, che era noto per la sua non comune capacità di reggere l’alcool, quella sera manifestava precoci quanto allarmanti segni di cedimento. Toccava a lui dare le carte e nel farlo combinò un pasticcio. Nessuno, nemmeno Luisa, se la sentì di fare commenti. Al secondo tentativo, il servizio gli riuscì e ricominciarono a giocare.

Le prime due mani filarono lisce: undici pari, e l’atmosfera sembrò  addolcirsi.  Ma  al termine  della terza, dopo che Paolo si era precipitato a fare l’ultima presa, Luisa si azzardò a dirgli: -Paolo, guarda che l’ultima è nostra!-

-Ma che stai dicendo?-

-E’ nostra!- ripeté Luisa togliendogli le carte di mano, -Guarda! Io ho giocato bastoni e nessuno ha risposto-.

-Macché! tu hai giocato il re di coppe e Cesare ha preso col due!-.

-Stai imbrogliando!- lo accusò lei adirata.

Mai l’avesse fatto! Paolo si alzò barcollando e, rivolto provocatoriamente a tutti, farfugliò: -Ma…ma…ma come vi permettete?!-

-Umberto, Cesare…avete visto? L’ultima è nostra!- ribatté Luisa sempre più incredula.

I due erano visibilmente alterati, sapevano benissimo che lei aveva ragione ma fecero finta di nulla per evitare di peggiorare le cose.

-Non mi ricordo- rispose con prontezza Umberto, che era un maestro di diplomazia e già altre volte era riuscito a smorzare i toni di certe controversie che rischiavano di degenerare. Ma doveva far violenza a se stesso, per evitare di trascendere a sua volta.

-Eeee no!!!- sbraitò Paolo, -tu lo sai benissimo, l’ultima è mia…o vorresti mettere in dubbio la mia parola? Io sono Paolo Giordano e da otto secoli la parola dei Giordano è sacra! E ora, arrivi tu…tu, a metterla in dubbio? Se fossi un mio pari ti sfiderei a duello!-

Era troppo! Di fronte a tali spropositi, prima che l’ira gli annebbiasse la mente, inducendolo a compiere atti di cui poi si sarebbe pentito, preferì abbandonare la lizza.

-Bene! Per oggi è meglio finirla qui-.

Paolo, nel frattempo, si era rimesso a sedere o, per meglio dire, era ricaduto sulla sua sedia e mischiava le carte, fissando un punto indefinito della parete che gli stava di fronte. Luisa si era seduta al suo fianco e, sbollita la rabbia, lo guardava attonita, mentre Cesare e Michela, imbarazzati come non mai, non sapevano che fare per cavarsi d’impaccio.

Umberto si era infilato il cappotto e, presa Chiara sotto braccio, rivolse a tutti un rapido saluto e uscì di quella casa con il diavolo in corpo.

-Guarda- disse alla sua compagna mentre scendevano in fretta le scale, -se mi fossi trattenuto ancora un attimo gli avrei messo le mani addosso, a quel buffone, ma chi si crede di essere?-

-E’ quello che è- gli rispose lei con dolcezza, cercando di rabbonirlo,  -e tu sei tu, e ti sei comportato benissimo. Non potevi fare altrimenti, del resto, “noblesse oblige!”-

***

Il giorno seguente, alle sette di sera, mentre Umberto e Chiara se ne stavano seduti al Caffè Di Maggio, sorseggiando uno di quei Martini speciali che Mario, il barman, preparava solo per loro –le mance di Umberto erano proverbiali fra i camerieri del centro- arrivarono Paolo e Luisa. Appena li vide, Umberto rischiò di farsi andare di traverso l’oliva intinta nel cocktail che si era appena ficcato in bocca.

-Buona sera, signori!- li salutò Paolo ostentando un largo sorriso.

-Ciao!- disse Luisa con una faccia tirata.

Dopo aver automaticamente risposto ai saluti, sempre automaticamente e sempre con l’oliva in bocca, Umberto si alzò per baciare Luisa sulle guance, mentre Chiara riceveva il baciamano di Paolo.

-Prego- disse Umberto dopo aver ricacciato l’oliva in un angolo della bocca, -accomodatevi!-

I due si sedettero e, dopo una pausa infinita, Paolo dette un’affettuosa pacca sulle spalle dell’amico e gli chiese: -Come mai, ieri sera, te ne sei andato senza terminare la partita?-

Umberto aveva appena finito di spolpare la sua oliva ed ebbe l’impulso di sputargli il nocciolo in faccia. Evidentemente neanche Luisa, una volta rimasti soli, era riuscita a indurlo alla ragione. Gliene aveva passate tante ma quella volta non sapeva proprio come comportarsi. Per evitare di ricadere in tentazione, smise di succhiare il nocciolo, lo posò sul sottobicchiere e, masticando il suo Martini, affissò l’amico. Poi gli rispose: -Senti, Paolo, ci era sembrato che tu fossi un po’ stanco-. Non sapeva dove sarebbe andato a parare, attendeva la risposta di Paolo.

-E’ vero, ieri non ero in gran forma…ma vi avrei battuto lo stesso. Non si abbandona una partita così…e poi, ragazzi, seguite il giuoco: Luisa è uscita col re di coppe e Cesare ha preso col due! ma non ricominciamo a discutere, per l’amor di Dio! anzi, mettiamoci una pietra sopra…ecco! Voglio essere magnanimo… “noblesse oblige”-.

Dopo aver pronunciato quelle parole, dette un’altra pacca sulle spalle dell’amico dicendo: -Dopo cena tutti a casa, ci facciamo una partita seria! Sei pronto?-

Mentre guardava quel mostro, a Umberto tornarono in mente gli algidi Natali della sua infanzia. Aveva già comprato i regali per lui e per Luisa e sapeva che loro avevano fatto altrettanto, aspettavano solo di essere messi sotto l’abete, mentre il camino, nel salone di Paolo, era pronto ad accogliere il ceppo. E “lo sventurato rispose”:

-SEMPRE!-

Federico Bernardini

Illustrazione: “I Giocatori di carte” (Paul Cézanne), fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Paul_C%C3%A9zanne,_Les_joueurs_de_carte_(1892-95).jpg



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