La vicenda si svolge alla fine degli anni Settanta, quando gli articoli si inviavano ancora per posta o si dettavano al telefono. Ricordo gli stenografi dell’ANSA…più veloci della luce.
Vittorio era pieno di scrupoli. Dopo aver scritto un articolo lo leggeva e lo rileggeva fino alla nausea, per esser certo che non contenesse neanche il più piccolo errore e solo allora lo chiudeva in una busta, pronto per esser spedito ad una delle tante riviste alle quali collaborava. Non di rado gli accadeva di esser colto da qualche scrupolo postumo e allora apriva la busta e lo leggeva e lo rileggeva con ancor maggiore attenzione, sino a quando, raggiunta la matematica certezza di aver compiuto un lavoro perfetto, si decideva ad affidarlo alle poste.
Vittorio era un purista ad oltranza, un cultore della lingua dei padri e se per caso gli fosse sfuggito un solo barbarismo, se ne sarebbe vergognato più che di una malattia venerea. Tanto rigore però non era condiviso dai suoi colleghi e tanto meno da quegli ignoranti dei direttori, coi quali era impegnato in continue dispute telefoniche ed epistolari.
Per una sottile ironia della sorte, l’unico alleato sul quale potesse contare nella sua personale crociata in difesa dell’italico idioma, ormai quasi sopraffatto dalle orde anglosassoni, era il direttore di una rivista del Canton Ticino. Non si erano mai visti, ma potevano considerarsi amici e ogni anno, a Natale, una scatola di cioccolatini Lindt partiva da Lugano alla volta di Roma e una cassetta di Brunello di Montalcino partiva da Roma alla volta di Lugano.
La lettura di quella rivista, alla quale collaborava da lungo tempo, gli procurava un profondo godimento: era scritta in un italiano impeccabile. “Da noi, per trovare qualcosa di simile” diceva Vittorio “occorre andare a consultare le raccolte dei giornali d’anteguerra”.
Ogni mese attendeva il suo gioiello con ansia e non poteva tollerare il fatto che la rivista gli venisse recapitata spesso con grave ritardo e non certo per colpa delle poste svizzere. Quell’infingardo del postino, poi, sembrava lo facesse apposta a infilarla in malo modo nella cassetta delle lettere, cosicché, sporgendone più della metà dalla fessura, qualunque mascalzone avrebbe potuto facilmente sottrargliela. Un giorno o l’altro si sarebbe rivolto ai suoi superiori e gliel’avrebbe fatta pagare.
Ogni volta che la riceveva se la leggeva tutta, dalla prima all’ultima riga, senza tralasciare neanche gli annunci economici. Ciò che più gli premeva, naturalmente, era il suo articolo e mai, in anni ed anni di collaborazione, gli era capitato di trovarvi neanche il minimo refuso. Ciò era per lui motivo di grande soddisfazione e confermava la sua stima illimitata nei confronti dell’amico direttore.
Un pomeriggio, tornando a casa dopo aver consumato la colazione nella solita trattoria, Vittorio trovò nella cassetta delle lettere la sua adorata rivista; il postino l’aveva infilata nel modo consueto e ciò gli procurò un moto di stizza. Ma si rinfrancò subito, pregustando il piacere della lettura. Si chiuse nel suo studio, accingendosi al rito con l’animo del pellegrino in partenza per un santuario.
Come al solito, cominciò dal suo articolo e subito, nel bel mezzo di un vistoso catenaccio in corpo18, si imbatté in uno spaventoso refuso: “se stesso” scritto senza l’accento sul pronome. Gli si accapponò la pelle. Per la prima volta, leggendo quella rivista, aveva trovato un refuso e proprio in un articolo che portava la sua firma. Ma quanti avrebbero pensato alla svista di un correttore di bozze ignorante e quanti, invece, avrebbero attribuito proprio a lui la paternità dell’errore?
Era in giuoco la sua reputazione e si rendeva necessaria una tempestiva rettifica, da pubblicarsi in bella evidenza e con tante scuse, sul numero successivo.
Telefonò immediatamente al direttore.
-Ciao, sono Vittorio- disse lui cercando di dare alla sua voce il tono più affabile -ho appena ricevuto la rivista e, non ci crederai, ma proprio nel mio articolo ho trovato un orribile refuso-.
-Non è possibile!- rispose seccamente lo Svizzero -ho corretto personalmente le bozze e ti posso assicurare che in questo numero, come in tutti gli altri, non c’è neanche la più piccola magagna-.
-Eh, eh, caro mio, questa volta ti sei proprio sbagliato, ma non ti preoccupare, può capitare a tutti. Certo, non è cosa da poco, ma basterà una rettifica sul prossimo numero-.
-Non so di che cosa parli!- soggiunse lo Svizzero ancor più seccamente -ti ripeto che in questo numero non c’è neanche la più piccola magagna-.
-E ti sembra niente scrivere se stesso senza accento?-
-Lo sanno tutti che sé, quando è seguito da stesso, perde l’accento-.
-Ma tu sei pazzo!- proruppe Vittorio perdendo il controllo.
-Modera i termini e consulta un vocabolario- rispose lo Svizzero.
-Ma consultalo tu, se ce l’hai, un vocabolario! Il Palazzi, e il Palazzi è legge, dice che sé si accenta sempre, anche quando è seguito da stesso-.
-Ma lascia stare il Palazzi, lo sanno anche i bambini delle elementari che se stesso si scrive senza accento-.
A quel punto, fuori di sé dalla rabbia, Vittorio cominciò a urlare: -Ma che cazzo ne vuoi sapere tu, che non sei neanche italiano, di come si scrive sé stesso. Vai a dar lezioni agli Svizzeri e non a me!-
-Senti, ora mi hai proprio rotto i coglioni! E’ da un bel pezzo che sopporto le tue manie, tu sei un pazzo, fatti curare!- E riattaccò la cornetta.
Vittorio si prese la testa fra le mani, la rabbia che lo aveva invaso sino ad un attimo prima era svanita, convertendosi in profonda amarezza e cocente delusione. Proprio lui, il suo migliore amico e alleato, compagno entusiasta di tante battaglie linguistiche, lo aveva tradito, e nel modo più vergognoso. Oppresso da quei sentimenti, se ne stette, per un po’, seduto alla sua scrivania, senza riuscire a pensare a nulla. Ma poi anche l’amarezza e la delusione svanirono, lasciando il posto a una lucida, fredda e irremovibile determinazione: si sarebbe vendicato privando il traditore del suo miglior giornalista.
Scrisse di getto la più bella, nobile e sdegnata lettera di dimissioni che si fosse mai vista, la chiuse in una busta, l’affrancò e si precipitò a spedirla.
Tornato a casa si gettò sul letto, calzato e vestito, le vicende di quel pomeriggio l’avevano fiaccato fisicamente e moralmente.
Incapace di pensare e di sentire, si lasciò prendere da un piacevole sopore e così rimase a lungo, tra il sonno e la veglia. A un tratto, come colpito da una scarica elettrica, riprese coscienza, balzò in piedi e col cuore in tumulto si precipitò nel suo studio. Una copia della lettera che aveva spedito giaceva ancora sul suo scrittoio, la prese e cominciò a leggerla convulsamente.
“A mio avviso, date le circostanze, non mi rimane altro da fare che presentarle le mie dimissioni”.
“A mio avviso”, il più osceno dei gallicismi, così aveva scritto nella lettera e ormai era troppo tardi per rimediare.
-E adesso come faccio?- si disse Vittorio con un nodo alla gola. Si sedette pesantemente su una poltrona, stringendo il foglio tra le mani, e cominciò a piangere come un bambino.
Federico Bernardini
Illustrazione: Indro Montanelli e la sua Lettera 22, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:IndroMontanelliLettera22.jpg