Quando non andava mondina, la Madela al Giobia puliva sempre la casa della so madrina, Maddalena Sùclona, di cui le avevano dato il nome quand l’avevan battezzaia.
Il cognome della donna non era davvero Sùclona, l’era al nom con cui tutti ciamavu al so papà, al Sùclon, perché finché era stato vivo aveva fatto il ciabattino.
Madela, al Giovedì, faceva la pulizie mentre sua sorella piccola, la Luciana, faceva il bucato e stirava, che quest’ultima l’era una di quelle cose che a Madela proprio non andava di fare.
Ed era così che pagavano parte dell’affitto dell’appartamento due piani più sotto, che tutto il palasi l’era dla Sùclona. Ed era questo che Madela cercava di ricordarsi ogni volta che arrivava dantla stanza che lasciava sempre per ultima, la camera da letto della donna.
Perché ai piedi dal let stava, bella lucida, la cass dal mort.
Quando al Sùclon aveva ricevuto la prima commessa importante da li fascisti aveva subito investito in due casse da morto, una per lui e una per la figlia, che non si sapeva mai come si poteva stare a soldi al dì in cui si saliva ant al ciel. E così, fin da quando Madela era piccola, in quella stanza c’era stata la cass dal morto con la croce sopra.
Madela doveva rifare il letto, passare lo straccio per terra, dare aria all’armadio e fare la polvere ai mobili. E alla cassa.
E ogni Giobia, che già si faceva tardi perché aveva perso tempo prima, Madela di solito prendeva una strass pulito e lo faceva. Talvolta, quando la paura l’era tropa, chiudeva gli oči.
Quel Giobia però Madela l’aveva un posto in cui andare, così entrò nella stanza facendo ben attenzione a non guardare, fece quello che era solita fare in tutta fretta e poi, occhi ben chiusi, si fece il segno della croce e infilò la mano nella scollatura della maglietta a sfiorar la foto che teneva sempre lì, la foto dal Sandro, che la teneva lì da quand l’era andà partigian, e mai più tornato.
Occhi chiusi si inginocchiò e prese a spolverar al coperchi dla caša, frucciando bene la parte in rilievo del crocifisso avvolto dalle spine.
“Maddalena!”, la voce della so madrina la costrinse ad aprire gli occhi. La donna stava sulla porta con quell’aria che spaventava tutti, anche se l’era alta come un tappo ed esile come una fune. La Sùclona la guardava dalla porta, sporgendo in avanti il capo e strizzando gli occhi dietro spesse lenti scure “T’ha già finì?”, le chiese, “T’è appena arrivaia”. Madela le disse che aveva fatto in fretta, quel giorno, ma tutto ugualmente per bene. “Duvria andè…”.
“Lo sù mi, dove t’vuria andè, cara la me mata”, la interruppe la Sùclona, e aveva il tono che teneva sempre in classe, che Madela non ce l’aveva avuta come maestra, ma una volta aveva fatto una supplenza e Madela se la ricordava, perché l’aveva messa in castigo dietro la lavagna.
E proprio perché l’aveva quel tono, Madela sapeva che non pudiva parlè, così chinò il capo e, nel farlo, lo sguardo le cadde sulla cass dal mort. E le venne subito caldo, caldo d’un colpo e vide tutto un poc bianc e un poc neri.
E poi, un dolore forte al fianchi che la riscosse tutta, “Lassa ste’”, le stava dicendo la Sùclona che, per non chinarsi, le aveva tirato un calcio nel fianco “Lassa ste’”.
Madela si alzò, sentendosi ancora un po’ accaldata e con un po’ di nausea che avrebbe volentieri placato con una delle caramelle che la donna teneva forse da sempre in una giara in salotto: talvolta riusciva a rubarne una, prima di andarsene, si appiccicavano al palato ma erano dolci, sapevano di rosa e mele, ma quel giorno non aveva voglia nessuna di farsi sgridare.
Non disse neppure a sua sorella che andava: prese la porta e poi, dopo essere uscita sul ballatoio, raggiunse le scale e scese. Voleva cambiarsi, ma quando entrò in casa la so mari, grembiule addosso e mano corposa sul fianco, le sventolò contro il mestolo “Al to fradel l’è anda’. Ma tu va nen, sta’ ca’!”, la accolse così agitata che i capelli le erano tutti scappati dalla crocchia stretta, mezzi bianchi e mezzi castani, e anche se la guardava da sotto in su, sua mamma l’era periculusa, anche senza il mestolo. Ai bastavu quegli occhietti marroni che la guardavano fissa fissa, e la ruga in mezzo alla fronte che si formava solo quando l’era preoccupaia davvero.
“Mama”.
“Va nen. Sta ca’”.
Al Gildu, suo padre, l’era nen a ca’. L’era a lavurè alla fornace, ma se suo fradel l’era andato, al Gildu l’avrebbe scoperto presto.
“Madela, va nen”, ripeteva sua madre.
E se non fosse che in quel momento dal cortile iniziarono a chiamarla, forse Madela sarebbe rimasta in casa. Ma l’Ausilia la stava chiamando, e la Teresina, e suonavano i campanelli delle biciclette, e Madela andò a mettersi la maglia buona e a prendere al fasulet par la testa.
“Va nen, sta ca’”, stava ancora dicendo la Cichina mentre Madela scendeva in cortile. La vide così, mentre si annodava il fazzoletto in testa, sporgersi dalla ringhiera e guardar giù, il mestolo inerte in una mano e i capelli quasi sciolti. Le sue amiche la salutarono, ma Madela chinò il capo e prese la bici.
Al disivu che la guerra l’era finita il 25 Avril.
Ma l’era nen ver.
C’erano cose di ogni tipo per strada, come durante le alluvioni, solo che non c’era acqua, né fango. I materassi erano accantonati lungo i muri, gli oggetti, i vestiti sparpagliati per terra o in grossi scatoloni, se non già sui carretti che se li portavano via, chissà dove. Madela vedeva carte bruciacchiate svolazzare di continuo in giro, facendo neve di Maggio, soprattutto nei pressi del Municipio.
L’odore di bruciato si sentiva sempre per le strade, di quei giorni. C’era il fuoco che sembrava un altro mondo, quand entravu e trovavan le carte.
Al disivu che non avrebbero smesso finché tutto dant li casi dli fascisti saria stat cenere.
Madela aveva lasciato la bicicletta all’ingresso della contrada. Camminava a braccetto con le amiche, ascoltava la Teresina raccontare dal cinema, che la Teresina l’era così brava che ti pareva di vedertelo proprio lì, al cinema, con i suoi attori e le sue attrici e le storie d’amore.
Avrebbero cantato, ma c’era tropa gent par la strada, tutti che andavano come loro alla piazza, in gruppi o da soli.
E l’Ausilia allora diceva che sarebbero tornate a cantare anche loro, tra poco. Una settimana e poco più, e si tornava a mundà al ris, in bicicletta alle cinque del mattino sino ai riseri, quelle vicine e quelle lontane, che le più fortunate sarebbero andate all’abbazia di Lucedio che i pagavan ben e l’era nen luntano, o alla Salera, propri vicin al pais, ma erano poche e loro tre già sapevano che li aspettavan li chilometri, andè e turnè tutti i dì.
L’an pasà, Madela l’aveva bacià al Sandro, prima d’andé mondina. Al Sandro, che l’era andà partigiano e mai più tornato.
La Teresina già cantava “Son la mondina son la sfruttata…”, ma si stavano avvicinando alla piazza, e pareva brutto, cantare. Ma c’era la voglia, che raschiava la gola, c’era la voglia perché ora si camminava per strada, si pulivano i vetri dal nero e la sera chi l’aveva accendeva la luce.
“Par noi altri, al cambierà nient”, diceva sempre suo padri, al Gildu, e Madela lo stava dicendo alle amiche, ma intanto al fradel grand di Madela era tornato a casa dalla guerra e anche se non fosse cambiato niente, questo bastava. E poi, pensava Madela, nessuno sarà più costretto a fare il quadro svedese al Sabat Fascista, che lei l’aveva sempre avut paura dal quadro svedese.
“Con la munda, mettiamo la energia elettrica”, stava dicendo invece l’Ausilia, e stava per chiederle qualcosa, Madela, quando arrivarono alla piazza.
[Fine della prima parte. Venerdì prossimo la seconda parte]