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Racconto ‘La guerta non è finita il 25 aprile’ – Giulia Romano (seconda parte)

Creato il 17 dicembre 2011 da Temperamente

Racconto ‘La guerta non è finita il 25 aprile’ – Giulia Romano (seconda parte)

[qui la prima parte]

Di gente già ce n’era, dantla piaza. C’era la Sandra Spadina, con le altre amiche e mentre loro si avvicinavano videro in mezzo ad un gruppetto di uomini con i fazzoletti rossi al collo una bella madamina, ancora giuvna, ma con i capelli color dla neve “L’è la maestra Bianchina!”, stava dicendo l’Ausilia, e Madela che l’aveva avuta quando ancora non era la maestra Bianchina, si sentì un po’ triste di non aver riconosciuto la donna, che prima della fine della guerra “…di casa mica l’usciva”, continuava a dire l’Ausilia, con la sua vocetta, e proseguiva “L’è venuta a veghi si fan al fascista quel che vulevan fa al so marì”.

Avevan bruciato il fienile, li fascisti, par andè veghi se si nascondeva lì e l’uomo s’era buttato appena in tempo nella roggia. Ma la maestra Bianchina, che l’ava nen vist che era scappato, l’era svenuta e si era svegliata con tutti i capelli bianchi. E Madela non riusciva a smettere di guardarla, tanto che finì tutta bella contro la Sandra Spadina.

“L’era la ton maestra, ne Madela?”, le fece l’altra ragazza ridendo e tirandola su. L’aveva i capelli lunghi che teneva sulle spalle, la Sandra, capelli neri che non si sapeva come facesse a tenerli tanto belli.

“L’era la me maestra”, confermò Madela, e guardò nella folla di ragazze e ragazzi, uomini e vecchi, madri e nonne e vide per la prima volta che erano tanti, da tutte le contrade, erano forse tutti quelli che non dovevan lavorare, lì per vedere.

“L’è al prim che ci fan veghi”, fece la Teresina, come se avesse capito da come si guardava attorno Madela a cosa stesse pensando.

La gente vuole vedere.

Madela strinse forte al bras dell’Ausilia.

“L’han truvà al Rus mort, l’autri dì, sul canal. Al prufessur Rusi”, bisbigliò la Sandra “Con autri des. Al Renzo dla pastiseria e son mat. Tutti giù, ant al canal”.

La gente vuole vedere.

“L’erano i fascisti grami. Mica quelli che l’avevan la tessera per lavurè”, disse qualcuno, ma Madela iniziava a sentir caldo, come a casa della Sùclona.

“E infatti, nessuno ha preso al Bastianin Rus. Han preso al professur ma non son fradel, perché l’è un brav om”.

Al Bastianin portava la lolla. Sacchi di lolla a tutti quelli che non sapevano di che altro scaldarsi. L’era an brav om, al Bastianin.

“E il Corbelaru?”, chiese Madela allora.

“Gram”, risposero solennemente le amiche.

“E l’è pure un codardi”, ricordò qualcuno.

Al Corbelaru l’era uno che faceva i conti, questo Madela sapeva, e quand l’aveva vist che l’era finita la guerra aveva fatto il malavi credinda da scapà. Ma il son andalu pià.

E ci fu silenzio.

An poc più di prima, almeno. La gente ancora al parlava, ma l’era come se ci fosse al silenzi. E lo portarono al centro della piazza, al Corbelaru, né alt né bas, la testa bruna e grigia, una barbetta misera. Pariva ch’al piansiva, ma poteva benissimo essere al sol ad Magi.

E prima che Madela potesse capire, l’avevan girà darera, e gli’eran gli uomini con i fucili, e Madela non sentì tanto il suono, perché tutto attorno a lei l’era strano, lontano, non sentì il suono ma vide al Corbelaru sauter, sauter andietro, e poi, poi l’aveva vistu drucà, drucà dant la piazza.

Ora Madela non si sentiva più male.

Ma sapeva già, lo sapeva già in quel momento, che di tutte le cose accadute nella guerra, non si sarebbe dimenticata dal Sandro, il Sandro che era così bello e le sorrideva così bene e che era morto a Chivasso, né dei proiettili che l’avevano quasi colpita pasand sut al ponte, né del Corbelaru e della sua schiena, di come l’aveva sautà e poi l’era drucà. No, non si sarebbe dimenticata mai.

C’era il silenzio vero, per un momento.

E poi qualcuno battè le mani, qualcun altro si mise a urlare, e l’era gioia.

Mentre la gente iniziava a sparpagliesi, par nen vardà la schiena e il sangue e al roc dla piaza farsi rosse fitte, qualcuno iniziò a cantare e c’era la voce della maestra Bianchina sopra tutte le altre “Una mattina mi son svegliato, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”.

E le ragazze, ora in silenzio, anche l’Ausilia e la Teresina, e le ragazze mentre al turnavan vers le biciclette, presero a cantare a mezza voce quella che l’era la vera canzone, la canzone originaria, la canzone che era stata presa loro.

Alla mattina appena alzata

o bella ciao bella ciao

bella ciao ciao ciao

alla mattina appena alzata

in risaia mi tocca andar

un duro lavoro mi tocca far

e tra gli insetti e le zanzare

o bella ciao bella ciao

bella ciao ciao ciao

il capo in piedi col suo bastone

o bella ciao bella ciao

bella ciao ciao ciao

il capo in piedi col suo bastone

e noi curve a lavorar.

O mamma mia o che tormento

o bella ciao bella ciao

bella ciao ciao ciao

o mamma mia o che tormento

io ti invoco ogni doman.

Ma verrà un giorno che tutte quante

o bella ciao bella ciao

bella ciao ciao ciao

verrà un giorno che tutte quante

lavoreremo in libertà.

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Nota conclusiva: quella presente nel testo non vuole essere una fedele trascrizione del dialetto di Trino Vercellese, quanto rendere delle atmosfere e nel contempo far sì che anche i non vercellesofoni comprendessero la storia.


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