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Racconto ‘Nomi nella città’ – Davide Vitacca (prima parte)

Creato il 04 novembre 2011 da Temperamente

Racconto ‘Nomi nella città’ – Davide Vitacca (prima parte)Un uomo esce di fretta da un portone di legno blu. Percorre il marciapiede a passo svelto, schivando di tanto in tanto pozzanghere, cartacce ed escrementi. Indossa un giaccone beige e tiene il bavero rialzato per proteggersi dal vento che si incanala nel vicolo stretto soffiando in direzione contraria alla sua marcia. Tra le macchine parcheggiate alla sua destra e le fiancate dei palazzi alla sua sinistra non c’è molto spazio, perciò quando incontra una persona che cammina nel senso opposto deve rallentare, mettersi di fianco e, nel caso si tratti di anziana signora con carrello della spesa, concedere la precedenza con un rapido gesto della mano abbozzando un sorriso d’intesa.

Dopo pochi secondi raggiunge l’incrocio con un largo viale alberato: da una parte e dall’altra una parata di platani collocati regolarmente uno dopo l’altro. Gli alti rami spogli gli paiono liane nella giungla urbana. Guarda attorno a sé, cerca qualcosa, o forse qualcuno. Ad un angolo un caffè tabaccheria, i tavolini ancora accatastati, le sedie riposte una sull’altra,  ed ora sbuca dall’interno buio una camicia bianca con grembiule nero che si appresta a sistemarli per gli avventori del mattino; di fronte una panetteria, un’insegna con il disegno di un’invitante baguette ne comunica l’apertura.

Il traffico scorre rapido e rumoroso, i passanti vanno di fretta e sembrano gareggiare con le automobili, si sorpassano e si sfiorano senza mai urtarsi, calcolando con precisione lo spazio  occupato dalla propria massa. L’uomo è indeciso, nonostante la sua apparente risolutezza. Si è fermato per guardarsi attorno e osservare il movimento della città che si risveglia.

Non sa se sia meglio prendere l’autobus, più lento ma certamente meno affollato, o il metrò, rapido e tuttavia carico di pendolari provenienti dalla periferia. Alla fine sceglie quest’ultimo, la fermata è proprio sotto il suo naso, basta scendere pochi gradini ed è già in viaggio. Questa linea non corre molto in profondità, anzi il suo percorso si sviluppa appena sotto la strada e la segue in parallelo.

Chissà perché quasi tutte le carrozze sono state sostituite, mentre la numero 8 ne ha sempre di così vecchie, avranno almeno trent’anni, pensa mentre le porte si aprono rivelando un muro di corpi che non accennano a scendere e nemmeno a muoversi per lasciare spazio ai nuovi passeggeri.

Ci si infila dove si può e un varco tra l’ascella di uno spilungone e la presenza di una bella ragazza lo si trova sempre, basta forzare un poco le distanze minime tra le persone.

Il percorso lo conosce a memoria, sa dove deve scendere per il cambio e sa qual è la fermata più vicina al luogo in cui sta andando, basta solo che il treno si svuoti e ci sia la possibilità di mettersi più comodi, magari seduti sui predellini, o che si trovi un giornaletto gratuito da leggiucchiare distrattamente.

Il nostro uomo però non si annoia mai,  infatti anche se non ha nulla da mettere sotto gli occhi o un passatempo programmato con cui scandire le tappe del viaggio, riesce sempre ad astrarsi quel tanto che basta per non dar troppo peso ai disagi del trasporto pubblico e del sovraffollamento nell’orario di punta. A lui piace pensare ai nomi, al loro significato, a ciò che evocano e a ciò che possono evocare nel singolo o nel senso comune. Non si tratta di definire le cose o le persone per le loro caratteristiche e qualità, né di stabilire preferenze fonetiche nella denominazione, come si fa di solito quando si discute sul nome da dare ai propri figli. Egli è piuttosto affascinato dai nomi come etichetta, espediente per marcare lo spazio fisico e simbolico, dalla loro pienezza, dalla loro, al tempo stesso, unicità e somiglianza che porta a confondere e fondere insieme, a dire una cosa al posto di un’altra, due al posto di una, una al posto di due o una cosa che non significa proprio niente, oppure troppo.

Nel paese in cui si trova,  l’uomo si sente a casa, si sente accolto, tuttavia la lingua che lì si parla non è madre per lui, è acquisita, appresa, assimilata. E questa fascinazione per ciò che si può ascoltare, pronunciare o veder stampato da qualche parte funziona meglio se si tratta di una lingua che seppur conosce bene non gli appartiene pienamente.

Lui, ad esempio, ama leggere e ripetere a bassa voce le parole che appaiono sulla segnaletica stradale, i nomi delle vie, le insegne dei negozi, i cartelloni pubblicitari, i titoli dei giornali sfogliati dagli altri viaggiatori, le targhe commemorative nelle case del centro dove hanno abitato grandi artisti e letterati, il nome delle città quando il treno rallenta prima di entrare in stazione, le fermate delle linee cittadine della metropolitana. A dire il vero sono proprio queste la sua più grande passione. Egli è consapevole del fatto che i nomi siano per la maggior parte un’attribuzione casuale, e che non definiscano oggettivamente la cosa che rappresentano, ma a stupirlo è proprio questa loro arbitrarietà, che con il tempo si solidifica in immagini mentali e associazioni personali di idee e sensazioni. Mentre, non dimentichiamo, sta attraversando nel sottosuolo le viscere della città pigiato insieme ad buon  numero di sconosciuti concittadini, l’uomo sa perfettamente che è proprio la mancanza di un legame necessario tra il nome Parigi e la città che così si chiama ad attribuirle un senso di precarietà, di incertezza e quindi a rendere ancora più prezioso questo battesimo.

Parigi si sarebbe potuta benissimo chiamare Londres e gli abitanti di London avrebbero potuto dire di vivere in una città denominata Paris (d’altro canto la topografia delle cittadine americane lo dimostra ampiamente).

Guarda che incomprensibili evoluzioni mentali si devono fronteggiare in una mattinata di ordinario trambusto metropolitano, riflette tra sé il nostro personaggio, e in effetti pare proprio una piega strana per una storia che era partita come un modestissimo pedinamento neorealista e che adesso si trasforma in un complicato e inutile ragionamento sul rapporto tra significante e significato.

Fatto sta che nulla gli da più soddisfazione della certezza di un nome come porta d’accesso per conoscere ed esplorare, anche solo mentalmente, la cosa stessa, a partire da un piccolo oggetto, fino alla più grande delle realtà fisiche; dalla concretezza della pietra, della terra, del legno, che si possono toccare e modificare, all’instabilità dell’ideale astratto.

(Fine della prima parte – Vai alla seconda parte)


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