“Andante grazioso” erano i vestiti con il sottogonna inamidato che mi cucivi tu, mamma!
“Largo ” è il mio sguardo bagnato che alzo verso i balconi della nostra casa; “Ritenuto” mentre lo sposto sui vetri aspettando di vedervi; “Andante lento ” è il mio passo, sotto questa pioggia scrosciante.
“Vivace, molto allegro” fu tanto tempo fa.
Via Ducezio era piombata nel buio, dopo un temporale improvviso che aveva allagato la strada.
Alla luce dei lampi, si vedeva una donna lungo il marciapiede, che saliva e scendeva. Ad ogni tuono si riparava sotto i balconi, in quel tratto di strada dalla chiesa del Carmine al Cinema Benso. Sopra il marciapiede, sotto il marciapiede, mentre le macchine evitavano per un pelo una figura massiccia di donna, impregnata di pioggia. Non occorreva guardarla negli occhi per capire che era persa.
-“Scema! Togliti di mezzo!”- le urlò un uomo da qualche parte e lei, riportata di colpo alla realtà, si ritrasse sotto un balcone per poi avviarsi lentamente in direzione della chiesa.
Arrivata davanti casa sua, attraversò la strada e si mise ad osservare la facciata con i due balconi al primo piano. Uno con la porta ad arco e l’altro con due porte rettangolari. Tutte incorniciate da una ghirlanda di fiori intagliati nel tufo. Graziose mensole di pietra, che riprendevano il disegno delle ghirlande, sostenevano i balconi. Sì, gli scalpellini avevano lavorato bene a quella casa costruita dal nonno. Barocco nei grandi palazzi settecenteschi, Liberty nelle case a due piani della piccola borghesia di inizio secolo. In quella sera di giugno, con quel temporale fuori stagione, guardava la sua casa e sapeva che era un addio.
Non aveva forza per salire le scale, né voleva entrare nelle stanze dagli alti soffitti; non un passo sarebbe riuscita a fare sul pavimento a grandi piastrelle siciliane, con stelle e fiori stilizzati dentro meandri geometrici. Tutto era disordine e desolazione, ormai, in quella casa. Un tempo era stata un luogo dove la luce entrava danzando, come le tende sospinte dalla brezza. E insieme alla luce, danzavano anche le note, in quella famiglia di musicisti.
Il temporale si stava allontanando. I rivoli di acqua che scendevano dalle grondaie, per un attimo, intonarono il motivo sinuoso di una romanza di Dvorak che suo padre le fece conoscere una lontana domenica di aprile. Strappò le note struggenti di quell’acqua libera e gorgogliante e le mise a capo di una partitura che ora reggeva con mani tremanti mentre il cuore si appellava alla memoria di quella domenica. Malferma intorno al baricentro del suo dolore, cercava solo un androne buio per rannicchiarsi e ricordare. Attraversò la strada e spinse il portone di casa. Sentiva la febbre salire. Si lasciò cadere sui primi gradini…
Sei entrata in camera, mamma. È la mattina di Domenica di Pasqua. Dobbiamo andare a Messa e tu temi che facciamo tardi. Io ho sui 10 anni, ho già indossato il vestito nuovo che mi hai cucito tu, verde prato con margherite bianche. Mi piace da morire perché lo hai completato di un sottogonna bianco che sembra la crinolina di una ballerina. Mi dici di fare presto ma io non ho ancora deciso quali scarpette abbinare a questo vestito di primavera : le scarpe bianche con il cinturino o quelle rosse da ballerina? Mi consigli di mettere quelle bianche per assomigliare ancora di più a una margherita.
-“Ma dove stanno? Non le trovo!”-
-“Fai presto gioia mia , Allièstiti! “-
E mi sento un prato fiorito mentre salgo la scalinata della Cattedrale e faccio dondolare più del dovuto la mia “ouverture”, come papà aveva battezzato il mio vestito, appena me lo vide addosso.
Eccoci fuori dal nostro mondo di musica, dove viviamo come accoliti, per molte ore al giorno.
Tutti a salutarci, al nostro passaggio. Papà è un fine violinista, un Maestro, direttore della banda cittadina e non solo. Due giorni prima ha diretto un Requiem ad una intera orchestra, nel bel teatro della nostra città.
-“Lo senti qui il contrabbasso? È il sangue di Cristo che pulsa lento. E il pianto di Maria è il “la” del violino. La Passione di Cristo e il pianto di Maria”-
(-“Gesù non morire così presto ! Sei ancora il mio Bambinieddu di cera che ho riposto poco tempo fa. Nasci e muori in così poco tempo”-)
Ora sento freddo e mi attanaglia il pensiero che sono sola al mondo. I pochi che mi stanno vicino cercano di consolarmi, di arginare il mio terrore per la malattia che mi sta togliendo anche i ricordi. Combatto per tenere stretta a me la grazia di quei pomeriggi in cui tu, papà, mi guidavi la mano in un solfeggio e mi spiegavi che tutto, nella musica, come nelle altri arti, ubbidiva a un bisogno.
-“La nota allungata, per esempio, è un pianto o una gioia che si allarga, che ha bisogno di altro tempo…”-
Padre, che senso ha, oggi, ricordare? In questo tempo, in questo spazio dove vivo abbandonata da ogni speranza?
Sento freddo devo salire piano piano, riposarmi un po’.
Ed entrando ritrovo la vostra assenza.
Siete mezze ombre e io solo un respiro affannato mentre vi cerco di stanza in stanza. E finalmente vi vedo nella luce stàsima che scende a perpendicolo su me, oggetto vuoto che ora sta seduto sul divano. Ma riapro gli occhi e ritrovo quello stesso giorno di Pasqua, di quando avevo fatto dondolare più del dovuto la mia “ouverture” verde prato con margherite bianche.
Il sole ad occidente si era andato a posare tra le volute della chiesa del Carmine e si rifletteva sui vetri dei nostri balconi, quando mi misi al pianoforte con il pretesto di farvi sentire una mia piccola composizione. Feci un colpo di tosse e cominciai a suonare la mia trasposizione per pianoforte di una romanza che tu, papà, avevi composto per violino. Fra i pezzi a me dedicati, era quello che più amavo. Lo avevi intitolato “Nina” e vi traspariva, apertamente dichiarato, il tuo amore per me. Avevo faticato non poco per la trasposizione ma volevo che suonassimo insieme, nonostante la mia giovane età.
-“Siediti, mamma! Come se fossi nel palco reale e ascoltaci! ”
E ti sei seduta qui, mamma, dove sono io adesso. Tenevi i piedi uniti e le mani in grembo, come una bambina ubbidiente. I tuoi occhi commossi andavano da me a lui, a questo duo di padre e figlia, di Maestro e allieva, in tournée nei grandi teatri del mondo, dove presto avrebbe risuonato l’angelica voce soprano che andavo educando.
I tuoi occhi, papà, mi impartivano il tempo e gli attacchi. Ho visto fiamme ardenti nei vostri occhi e ne sento ancora il calore.
Venitemi più vicini, adesso che sento più freddo.
Perché avete ora quello sguardo fisso come la fissità della nostra vita perduta, che neanche tra millenni tornerà più? Morte e morte in eterno e vita ancora per poco.
Requiem per me, madre e padre!
Requiem per violini e flauti soprani con l’oboe di questa pioggia che ha ripreso a cadere. Ma è Dvorak che voglio suonare con te, la romanza per piano e violino opera 11, che mi facesti amare come un essere umano, quella sera di Pasqua. Dopo il nostro primo duetto, andasti a prendere un disco dalla tua preziosa collezione. Amavi quella romanza e la amai perdutamente anch’io. L’abbiamo suonata insieme infinite volte e questa, sarà l’ultima.
Ecco i miei passi timidi sui tasti seguire in contraltare le spire del violino, i lacci del vostro amore che mi avvolgono dolcemente. Ti seguo, padre, a un passo di distanza, perché è il tuo violino ad avere la voce più forte, più languida e struggente. Il mio tocco sui tasti, adesso, sono gocce di pioggia o lacrime, e io mi sono persa nella brughiera inestricabile della solitudine. Da dove mi stai chiamando, corda di violino, flebile voce che mi indichi la direzione verso cui correre?
-“Non ci avevi perduto. Eccoci ! Siamo qui ,figlia mia, siamo qui! Nel nostro mondo di musica, la vita sarà eterna, non temere! Tieni aperte le braccia sulla tua croce, un attimo ancora! Fra poco verremo a deporti, saliremo insieme le scale della Cattedrale, bimba nostra, e dondolerai ancora la tua ” ouverture” di margherite.”
Finito di scrivere il 9 gennaio 2016 alle ore 10:30
Angela Argentino