Sarà stata
certamente una donna bella e sensuale Giulia Maggiore (39 a.C. - 14
d.C. circa), figlia del princeps
romano Augusto e di Scribonia, moglie di tre diversi mariti
(rispettivamente Marcello, Agrippa e Tiberio, tutti eredi al trono),
ma soprattutto amante di tanti uomini secondo i non lusinghieri
giudizi che di lei hanno tracciato le fonti dell'epoca: “inquinata
dalla lussuria” secondo Velleio, “di costumi licenziosi”
secondo Plinio. Non che le ricche matrone romane, con buona pace
degli ipocriti e propagandistici interventi legislativi a favore
della moralità dei costumi promanati proprio da Augusto, fossero
così scrupolosamente ossequiose al vincolo di fedeltà matrimoniale,
intente com'erano ad allacciare di frequente relazioni extraconiugali
con altri patrizi o con i più famosi gladiatori dell'epoca.
Giulia, figlia di Augusto
(ritratto di Pavel Svedomskiy)
Più
probabilmente i giudizi storici su Giulia Maggiore risultano
inquinati dal suo coinvolgimento nelle trame di una congiura
finalizzata all'abbattimento del potere augusteo, in seguito alla
quale la fanciulla, rasentando la condanna a morte, venne infine
condannata (2 a.C.) all'esilio forzato sulla piccola isola di
Pandateria (odierna Ventotene), un piccolo paradiso di due chilometri
quadrati al largo delle coste laziali e toscane, con l'espresso
divieto di bere vino, vedere uomini e ricevere qualsiasi visita non
previamente autorizzata dall'imperatore.
Lo storico
Tacito e il biografo Svetonio scrivono che la pena inferta a Giulia
fu mitigata, dopo qualche anno (5 d.C.), per espressa volontà
popolare, ed ella ottenne il trasferimento a Reggio, sulle rive dello
Stretto, allora annoverata fra le città più belle, ricche e colte
del Mezzogiorno italiano. Dopo tre mariti e svariati parti, alcuni
dei quali infelici (senza contare che Gaio Cesare e Lucio Cesare,
figli di Agrippa e Giulia e designati quali eredi al trono, morirono
entrambi in giovane età), l'ancora piacente matrona prese dimora
presso una bella domus
non lontano dall'odierno Lungomare Falcomatà dove, secondo la
tradizione, visse fino alla sua morte, sopraggiunta poco dopo il 14
d.C.; sembra che l'ultimo dei suoi mariti, il neo-imperatore Tiberio,
l'avesse privata di tutti suoi beni e di qualsiasi compagnia negli
ultimi giorni della sua vita, estremo castigo volto a suggellare
nell'odio un matrimonio infelice e le ripetute infedeltà della
donna, specie con Iullo Antonio, figlio del defunto triumviro
sconfitto da Augusto ad Azio.
Un'incisione ritraente Reggio nel XVII sec.
Il cerchio indica la zona dove sorgeva la Torre di Giulia
Il legame
fra Reggio e Giulia risulta testimoniato dalla tradizionale
identificazione di una fortificazione medievale, la cosiddetta “Torre
di Giulia”, con la dimora che ospitò la sfortunata figlia di
Augusto. La costruzione, caratterizzata da un'imponente struttura
quadrata di dieci metri per lato, venne realizzata in realtà in
epoca romea (probabilmente fra il IX e il X sec.) e sorgeva alla fine
dell'odierna via Giulia (poco distante dall'area dove oggi sorge
Villa Zerbi). Inglobata nella cinta muraria aragonese (il cui tessuto
urbano era molto meno esteso rispetto al passato) e collegata alla
città tramite un ponte ad arco, la torre svolse un rilevante
funzione di controllo visivo della zona compresa fra la porta
settentrionale di Reggio, Porta Mesa (ubicata fra le odierne vie
Palamolla e 2 Settembre 1847), e la batteria di San Francesco sul
Lungomare, prima della sua demolizione, decretata alla fine del XVIII
sec. in omaggio alle richieste, per così dire, “di razionalità ed
ortogonalità” imposte dal piano urbanistico Mori, elaborato in
seguito al disastroso sisma del 1783. Ampi
viali realizzati ex novo
si sostituirono al dedalo delle viuzze medievali, cominciando a
cancellare impietosamente – così come avverrà, dopo il terremoto
del 1908, con il “piano De Nava” – l'originaria e
plurimillenaria fisionomia della polis
dello Stretto. Chissà se l'ultima raffigurazione del manufatto non
sia da ravvisare in un'incisione, illustrante la rappresentazione di
una commedia dell'arte con protagonista la maschera reggina
Giangurgolo, presente nel “Voyage pittoresque ou Description des
Royaumes de Naples et de Sicile” di Jean-Cloude Richard de
Saint-Non (1781-85). In effetti, osservando il ritratto (vedi
immagine allegata),
a destra della scena si nota un antico edificio di struttura
quadrangolare sormontato da colonne e collegato ad un ponte ad arco
sullo sfondo; una torretta, un'abitazione o magari ambedue le cose
(magari una struttura difensiva rifunzionalizzata in abitazione o
viceversa)?
L'incisione del Sain-Non
La
vox populi
reggina localizzava dunque nell'area della torre la dimora e
soprattutto la sepoltura della bella Giulia. Una tradizione popolare
che sembra tuttavia suffragata da alcuni ritrovamenti effettuati nel
corso di cantieri edili effettuati in
loco fra il
1773 e il 1790 e segnalati dallo scrittore Giuseppe Logoteta: un
pavimento di mosaico, due cantoniere, un'ulteriore pavimentazione in
tufo, ruderi di pareti e un volto umano scolpito in creta, ma
soprattutto un architrave (oggi custodito al Museo Nazionale della
Magna Grecia) reimpiegato come materiale edilizio in una struttura
abitativa più recente con iscrizione dedicatoria ad Iside e
Serapide, presumibilmente parte del santuario dedicato alle divinità
egizie che doveva trovarsi nell'area dell'odierno Largo San Marco,
fra Via Reggio Campi e Via Possidonea. Le indagini
stratigrafico-archeologiche sulla maggioranza di questi reperti non
sono state condotte, i resoconti “eruditi” come quelli del
Logoteta andranno pur sempre presi con le molle, ma si può comunque
ipotizzare l'esistenza di una villa signorile nell'area in questione,
che magari ha legittimato l'insorgere della diceria popolare legata a
Giulia.
La
verità, in fondo, è che la storia reggina si presenta come un
oceano di segreti e misteri ancora da decodificare, nella speranza
che il fascino della ricerca ridesti finalmente l'entusiasmo dei
posteri.
Natale
Zappalà