Rafał Wojaczek (Ritratto eseguito dal poeta e pittore Zbigniew Kresowaty)
Poeta e prosatore polacco, annoverato nel gruppo dei poeti maledetti. Nacque a Mikołów il 6 dicembre 1945 e morì suicida a Wrocław l’11 maggio 1971. Debuttò nel 1969 con la raccolta Sezon (La stagione), accolta con lusinghieri giudizi dalla critica. Nel 1970 uscì la sua seconda raccolta Inna bajka (Una diversa favola). Postume uscirono Którego nie było (Colui che non c’era, 1972) e Nie skończona krucjata (La crociata non finita, 1972).
Scriveva solo quando non era in stato di ubriachezza. Si chiudeva in casa per due settimane e senza interruzione scriveva, correggeva, limava. Poi subentrava un intervallo di due-tre settimane, durante il quale si ubriacava da non reggersi in piedi, faceva scenate, provocava scandali. Più volte tentò di togliersi la vita. I medici gli diagnosticarono la schizofrenia. Questa diagnosi pesò su tutta la sua vita. Egli stesso chiese di trascorrere una settimana in una clinica psichiatrica e lì conobbe un’infermiera che diventò sua moglie e gli diede una figlia. Ma il matrimonio non durò neanche un anno e finì col divorzio.
Gli ultimi anni furono assai difficili – sprofondando sempre più nell’alcol sentiva di non essere più in grado di scrivere come un tempo. E non potendo scrivere, la vita non avrebbe avuto più alcun valore. L’ultimo tentativo di suicidio gli riuscì. Su un biglietto scrisse esattamente le dosi e i nomi delle medicine che avrebbe preso. Non si sa se per documentare la sua morte, o per lasciare una indicazione per il pronto soccorso. Comunque sia, aveva ingerito una tale quantità di farmaci, tra cui una forte dose di valium, che neanche un pronto intervento avrebbe potuto salvarlo.
Principali temi della sua poesia sono la morte, l’amore, la femminilità e la carnalità. L’erotismo e la sessualità sono ripetutamente legati alla morte. Il soggetto lirico dei suoi versi parla del dolore, ha il senso della estraneità, si ribella alla ipocrisia del mondo e della società, e ostinatamente esplora gli angoli oscuri dell’anima umana, analizza le proprie paure, inquietudini, ossessioni. Il linguaggio della sua poesia è spesso naturalistico, brutale e osceno. Ma sotto il volgare strato lessicale di Wojaczek si cela anche un profondo lirismo, un bisogno di tenerezza e una grande sensibilità, come emerge dalle lettere alla madre e al suo grande amore Teresa Ziomber.
Questo poeta così inquieto e tragico, dalla vita così imprevedibile, morto ad appena ventisei anni non ancora compiuti, è stato uno dei fenomeni più controversi nella poesia polacca del XX secolo. E’ sfrecciato come una cometa, lasciando dietro di sé la leggenda, soprattutto tra i giovani.
Rafał Wojaczek tradotto da Paolo Statuti
Ti parlo piano
Ti parlo così piano come un luccichio
E fioriscono le stelle sul prato del mio sangue
Nei miei occhi è la stella del tuo sangue
Parlo così piano che la mia ombra svanisce
Sono un’isola fresca per il tuo corpo
che cade di notte come goccia ardente
Ti parlo così piano come nel sonno
il tuo sudore sulla mia pelle brucia
Ti parlo così piano come un uccello
all’alba il sole cala nei tuoi occhi
Ti parlo così piano
come lacrima che scolpisce una ruga
Ti parlo così piano
come tu fai con me
Mito di famiglia
Kiełbasa * -
Mia madre commestibile
E’ appesa a un gancio di nichel
e odora di camino
Costa poco del resto non è mai stata cara
era comprensiva e conosceva le possibilità
Io sono figlio di mia madre
e di un certo giovanotto
che non fu prudente
e di sicuro cattivo
ma forse soltanto non sapeva
Mia madre allora era stordita
e poi si pentì
Adesso io ho fame
e mia madre pende
Dunque fisso la vetrina
e sento
che mi cola
la saliva e lo sperma
Lo so tra un istante non esiterò più
entrerò e chiederò
proprio questa
Kiełbasa –
Mia madre commestibile
E’ la mia fame dell’infanzia
* Salame in polacco
Sii per me
Sii per me dai piedi alla testa, dal tallone all’orecchio
Dai ginocchi all’inguine, dal gomito alle unghie
Sotto l’ascella, sotto la lingua, dal clitoride alle ciglia.
Sii il polo del mio cuore anormale
Il cancro che mangia il cervello e permetterà di sentirlo
Sii l’acqua dell’ossigeno per i polmoni bruciati.
Sii per me reggiseno, mutande, giarrettiera
Sii culla per il corpo, bambinaia che culla
Mangiami lo sporco delle unghie, bevi il sangue mensile.
Sii passione e compimento, piacere, di nuovo fame
Passato e futuro, secondo ed eternità
Sii ragazzo, sii ragazza, sii notte e giorno.
Sii per me vita, gioia, sii morte, gelosia
Sii rabbia e disprezzo, disgrazia e noia
Sii Dio, sii Negro, padre, madre, figlio.
Sii – e non chiedere come Ti ripagherò
E allora gratis prenderai il più bel tradimento:
L’amore che sveglierà la morte addormentata in Te.
La stagione
C’è la ringhiera
ma non ci sono le scale
C’è l’io
ma non ci sono io
C’è il freddo
ma non ci sono le calde pelli degli animali
le pellicce d’orso le code di volpe
Dal momento in cui è bagnato
è molto bagnato
l’io ama il bagnato
sulla piazza, senza l’ombrello
C’è il buio
c’è il buio come il più buio
io non ci sono
Non c’è il dormire
Non c’è il respirare
Il vivere non c’è
Soltanto gli alberi si muovono
insolito muoversi degli alberi
generano un gatto nero
che percorre tutte le strade
Scrivo amore
per te scrivo amore
io senza nome
animale insonne
scrivo spaventato
solo di fronte a Te
che ti chiami Essere
io carne della preghiera
di cui Tu sei l’uccello
dalle labbra cola
una goccia di alcol
in essa tutti i soli e le stelle
l’unico sole di questa stagione
dalle labbra cola
una goccia di sangue
e dove è la Tua lingua
che calmi il dolore
causato dalla parola morsa
amo
* * *
I capelli assonnati assonnata la veste Lesbia assonnata
Il brugo del sonno dolcemente elargisce l’arsenico
L’udito dorme la voce tace Dio muore
Sordamente fruscia una conchiglia dell’oceano
Il bianco pesce del corpo lentamente nuota