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Non è stata sufficiente neppure la smentita da parte della televisione di Stato. Anche perché non si è trattato di una reale smentita, ma di una vera e propria ammissione. Facciamo allora un passo indietro e ricostruiamo la vicenda dall’inizio.
15 febbraio: il primo a pubblicare la notizia è il sito dell’ADUC (Associazione Difesa Utenti e Consumatori), seguito, a qualche ora di distanza, dal Sole 24Ore. Alcune aziende sarebbero state raggiunte da una lettera raccomandata della RAI con cui quest’ultima esigeva il pagamento del canone: il presupposto della tassa, però, in questo caso, non era il possesso di apparecchi televisivi, bensì l’utilizzo di computer collegati in rete (digital signage e similari).
Per quanto assurda poteva apparire la pretesa, essa traeva fondamento da un’interpretazione formalista e letterale della legge del 1938 istitutiva del canone. La norma ne impone il pagamento a tutti i meri possessori di “apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni”: una disposizione che – per aggirare la furbizia spicciola dell’italiano medio – era stata interpretata estensivamente dalla Corte Costituzionale nel 1988. La Consulta aveva infatti chiarito che il pagamento è dovuto anche se l’apparecchio è solo “potenzialmente” adatto alla ricezione: a prescindere, dunque, dal suo effettivo utilizzo o funzionamento.
Questo discorso, ovviamente, aveva un suo significato negli anni ’40 sino a tutti gli anni ’80: finché cioè l’evoluzione della tecnica aveva conosciuto solo gli apparecchi televisivi come unico media atto alla ricezione delle onde radio-tv.
Le cose sono cambiate negli ultimi tempi, da quando, soprattutto, con la digitalizzazione del segnale, le onde video possono essere captate anche da computer, smartphone e tablet. Un esempio ne è stato l’app per iPad (Italian-TV) che consente la visione dei canali televisivi – compresa quindi anche la RAI – sulla tavoletta Apple.
Ecco dunque sorgere il presupposto di imposta: la “potenzialità” alla ricezione. Con la conseguenza però, su una scala certamente più ampia, che ogni famiglia ha oggi più computer e dispositivi mobili che non televisori. Una vera mannaia per le già disastrate casse di aziende e privati.
Si è quindi scatenato un polverone sulla rete, alimentato dai recenti scandali sanremesi, per i compensi esosi a Celentano e i relativi sprechi della TV pubblica. “Se questa è la fine che devono fare i nostri soldi, meglio l’obiezione fiscale!” è stato il grido. Lo stesso Iacchetti, intervistato al Chiambretti Night Show, ha ammesso di aver consigliato al proprio figlio di non pagare il canone.
Così, dopo una serie di dichiarazioni incerte e altalenanti (lo stesso viale Mazzini ha ammesso la poca chiarezza sul da farsi, a tal proposito invocando una consultazione con il Ministro dello Sviluppo Economico) è infine intervenuta quella che doveva suonare come una smentita, ma che di fatto ha tutto un altro significato. Il comunicato ufficiale diffuso dalla RAI è stato il seguente: “Con riferimento alla questione relativa al pagamento del canone di abbonamento alla tv, si precisa che le lettere inviate da Rai non si riferiscono al canone ordinario (relativo alla detenzione dell'apparecchio da parte delle famiglie) ma si riferiscono specificamente al cosiddetto canone speciale cioè quello relativo a chiunque detenga - fuori dall'ambito familiare (es. imprese, società, uffici)- uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezioni di trasmissioni radiotelevisive. Ciò in attesa di una più puntuale definizione del quadro normativo-regolatorio”.
In altre parole, il canone (ordinario, speciale o comunque lo si voglia chiamare) per i PC è comunque dovuto, ma solo con riferimento a quei computer utilizzati come televisori; fermo restando che sono esentate dal pagamento quelle imprese, società ed enti che abbiano già provveduto al pagamento per il possesso di uno o più televisori. Ciò quindi – precisa il comunicato – limita il campo di applicazione del tributo a una utilizzazione molto specifica del computer rispetto a quanto previsto in altri Paesi europei per i loro broadcaster, che nella richiesta del canone hanno inserito tra gli apparecchi atti o adattabili alla ricezione radiotelevisiva, oltre alla televisione, il possesso dei computer collegati alla Rete, i tablet e gli smartphone.
Ora il problema sarà conciliare questa precisazione con la sentenza della Corte Costituzionale che parla di “potenzialità” dell’apparecchio hardware. Dovendo infatti seguire il ragionamento della Consulta, ogni computer è “potenzialmente” utilizzabile per il digital signage e quindi ciascuno di essi dovrebbe essere presupposto di imposta.
La RAI, inoltre, pur ammettendo che il quadro normativo non è ancora chiarito in modo definitivo, con la sua nota sembra invitare i contribuenti ad anticipare ugualmente i pagamenti, salvo poi ottenere – eventualmente e coi tempi dello Stato italiano – il rimborso. Il che la dice lunga sulla “tecnica esattoriale” adoperata.
Il discorso sulla legittimità del canone apre peraltro una serie di considerazioni di carattere generale.
Preliminare è un forte dubbio di concorrenza sleale che la tv pubblica opererebbe ai danni di quelle private mediante l’imposizione del tributo. Difatti, queste ultime traggono sostentamento solo dalla pubblicità. Sicché il “beneficio” del canone si giustificherebbe qualora la RAI non disponesse di tali entrate. E invece anche le tre reti statali diffondono spot al pari di tutte le altre emittenti, peraltro con la stessa frequenza e durata. In questo senso, la legge istitutiva del canone sembra accordare un ingiustificato beneficio alla RAI rispetto agli altri canali.
Non è tutto. Se negli anni ’40, poteva anche essere giustificabile il pagamento di una tassa per un servizio che, non conoscendo altre forme di esercizi (le prime reti private sarebbero sorte solo quarant’anni dopo), si poneva come un vero e proprio servizio per il cittadino, oggi invece le cose sono notevolmente cambiate. Il regime della concorrenza – migliorato peraltro dalla messa del segnale sul satellite – ha reso la programmazione di tutte le reti pressoché identica. Peraltro, quanto offerto dalle tre reti statali non è sempre improntato a criteri di pubblica utilità (la scarsa qualità degli spettacoli trasmessi ne è un chiaro indice).
Ancora, i costi per sostenere un palinsesto televisivo e la relativa messa in onda sono oggi di gran lunga inferiori rispetto a quando tale tecnica si era appena affacciata, il che non giustifica un’ulteriore entrata rispetto a quelle beneficiate dai concorrenti.
Venendo poi alla questione del canone per i computer, si dimentica che i PC di aziende, società ed enti vengono utilizzati per fini lavorativi. Peraltro, chi vuol oggi vedere un programma TV attraverso il computer, sceglie di utilizzare YouTube: sistema certo più comodo perché asincrono, consentendo la possibilità di scelta sui tempi e “velocità” di visione.
Anche l’interpretazione delle norme di legge deve essere “evolutiva”, cioè contestualizzata al momento storico, affinché la vera ratio, la motivazione che ha fatto nascere la legge, venga rispettata in ogni momento storico. Così, siamo certi che il legislatore del 1938, se avesse avuto la possibilità di conoscere la tecnologia del 21mo secolo, avrebbe ben specificato che il canone era dovuto solo per gli apparecchi televisivi, lasciando fuori netbook, pc, smartphone e simili.
Mi consola pensare che, da sempre, la storia insegna che la caduta di un impero è sempre collegata all’abuso di un potere. Così anche il tramonto dell’epoca degli sprechi RAI e della coattiva riscossione di una tassa tanto inutile quanto iniqua, potrebbe trovare in questa vicenda la sua causa.
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