La versione dell’omicidio di Rasputin che Jusupov stesso rilasciò alle stampe, fece rapidamente il giro del mondo e si confermò come quella ufficiale della morte del monaco che aveva soggiogato la Russia.
Per quanto incredibile, si trattava di un resoconto troppo affascinante, troppo romanzesco, troppo perfetto per non lasciare il segno. La Russia, in quegli anni, era la patria del teatro: grandi scenografie, splendide prove d’attore incantavano nelle sale e nelle cantine un pubblico affamato, disposto a credere all’impossibile. Anche in questo caso, andò così. La sospensione dell’incredulità rese il pubblico – non solo quello russo, ma quello di tutto il mondo – più incline ad accettare il fatto che Rasputin fosse un demone immortale che non si lasciava mettere nella tomba, piuttosto che un vecchio maltrattato.
Dietro al mito si affaccia una realtà diversa. Non meno affascinante (anzi, più tenera, più domestica) ma senz’altro meno epica. E più pruriginosa di quanto già appaia.
Consapevole dell’amore tenero che Rasputin nutriva per lui (come per gran parte dei giovani uomini e delle donne di qualunque età che visitavano la sua casa, peraltro) Feliks Jusupov lo blandì per tutto il tempo durante il quale ne organizzò la morte. Lo blandì perfino promettendogli che gli avrebbe fatto incontrare la sua bella e delicata moglie, la Contessa Irina, che fu complice di Jusupov fino all’ultimo momento: spaventata dalle leggende che circolavano attorno a Rasputin e ai suoi presunti poteri oscuri, la notte stessa dell’assassinio non raggiunse il marito sul luogo del delitto.
Jusupov dovette andare da solo alla casa del contadino, dovette convincerlo a vestirsi e a uscire nella notte gelida, nonostante le precarie condizioni di salute – prima di morire, Rasputin aveva già subito diversi attentati alla sua persona e uno di essi, per mano di una donna, lo aveva particolarmente debilitato. Ciononostante, Rasputin seguì il suo “Piccolo Jusupov” fuori di casa, fino alla residenza dove avrebbe dovuto incontrare Irina. E dove invece incontrò la morte. Il medico Puriškevič e il granduca Dimitrij Pavlovič, intanto e come predisposto, avevano davvero sistemato il seminterrato come Jusupov aveva raccontato. C’erano davvero i calici di vino, i pasticcini avvelenati alla crema rosa e al cioccolato, il grammofono che suonava Yankee Doodle. E molto probabilmente attesero davvero al piano di sopra mentre Jusupov cercava di assassinare il suo ospite, ma non così a lungo come venne descritto.
Rasputin non era davvero il demonio degli inferi che il veleno non riuscì a uccidere. Piuttosto, il cianuro di potassio non ebbe alcun effetto. Perché?
La fiala mescolata al vino risultò troppo diluita per causare veri danni alla vittima. E in quanto ai pasticcini farciti di cianuro (il vero pericolo letale per la concentrazione di veleno) non si trattò alla fine di un’autentica minaccia. In tutta la sua vita Rasputin non fu mai goloso di dolci – un dettaglio che Jusupov non poteva conoscere per via dei troppi doni delle ammiratrici del monaco sciamano che, ignare, gli riempivano la casa di dolciumi. Quella sera, come di consueto, Rasputin non consumò dolci. La quantità di cianuro di potassio che ingerì non gli causò altro che un annebbiamento dei sensi. Questo spiega perché non si accorse della rivoltella nella mano di Jusupov, quando questi tornò da lui dopo essere salito a confrontarsi con i complici Puriškevič e Pavlovič.
Ma il motivo per cui non si difese, né tentò di scappare immediatamente, è probabilmente da imputarsi alla fiducia che nutriva nel giovane, alla promessa languida di un incontro intimo con lui e con Irina. Jusupov sparò, ma non era un assassino e il suo colpo, in seguito, si dimostrò superficiale. I complici lo raggiunsero e insieme stabilirono frettolosamente la morte del contadino. Quindi bevvero qualcosa al piano di sopra, aspettando che la città si addormentasse e le strade si svuotassero, in modo da poter trasportare via il cadavere con comodo. Intanto però Rasputin, sul tappeto nel seminterrato, riprese i sensi. Finalmente, tentò la fuga, ma venne brutalmente freddato a revolverate davanti al cancello. Grigorij Rasputin era ancora vivo quando lo gettarono nelle acque della Neva attraverso un foro praticato sul ghiaccio. Le autorità recuperarono dalle acque gelide il cadavere seminudo e lo trovarono congelato, le unghie spaccate e le braccia ripiegate di chi cercava di rompere la barriera di ghiaccio e salire dal fiume.
Tutto quello che aggiunse Jusupov nella sua confessione, fu inventato con cura e con cura stilato: “bisogna tenere presente che avevamo combattuto contro una persona eccezionale!” disse.
Il diavolo, che loro erano riusciti a vincere.
Scilla Bonfiglioli
Rasputin, l’omicidio del diavolo – Parte I (in Fralerighe n. 3)