Virginia Raffaele e Carlo Conti
Sanremo è una sorta di tranquillante sociale, sentenzia sul Corriere della Sera il critico Aldo Grasso, per il quale Carlo Conti perpetua l’eterno ritorno dell’identico. Non a caso la vera vincitrice del Festival è stata un’imitatrice, Virginia Raffaele:
Tutti a cercare il Partito della Nazione e noi da anni abbiamo lo Spartito della Nazione, e a quello ci siamo adeguati. Quando si parla di Sanremo si finisce fatalmente per parlare dei massimi sistemi, come se il Festival fosse una sorta di entità che non conosce alcuna responsabilità personale. Trascina anche chi vi si oppone. Eppure, il grande successo di pubblico di quest’anno (una cerimonia dell’usato sicuro, una festa della normalità striata da alcune eccezioni) ha confermato come Sanremo, oplà, sia passata in un attimo da città dei furbetti del cartellino, a Città del Sole, l’utopia perfetta del sapersela suonare e cantare. Carlo Conti è il leader dello Spartito della Nazione, un agglomerato politico postmoderno che si propone di accontentare tutti, che alla fase propulsiva (scelte, decisioni, traumi) preferisce quella regressiva, paradossalmente amplificata dai social network. È la perfetta fusione fra voto e televoto, fra consenso e audience. Il mestiere di Conti è stato soprattutto quello di scandire il ritmo delle serate, di fare in modo che ogni elemento previsto in scaletta arrivasse al momento giusto, di tenere il timone di un programma troppo lungo e parecchio frammentato. Ma questa attenzione su quello che c’era da fare ha tolto ogni curiosità vera, ogni interesse verso quello che stava andando in scena: le canzoni, i pezzi comici, gli ospiti e le testimonianze sono soltanto faccende da sbrigare in fretta, potenziali problemi da far andare lisci. Tolto ogni elemento che potesse anche solo dare un orientamento di qualche tipo al festival, tolti ogni idea di fondo e ogni punto di vista possibile (sul mondo, o anche solo sul modo di fare tv), resta solo una sequenza di elementi, un meccanismo tutto sommato poco coinvolgente, un ritorno al passato: o ancora meglio a un’immagine idealizzata e in fondo asettica di questo passato, dove le vallette facevano le vallette, i cantanti cantavano, i comici non disturbano troppo il guidatore. In questa regressione infantile cui ci costringe Sanremo (evvai Cristina D’Avena), in queste cinque serate ordinarie in cui però ogni «snobismo intellettuale» è bandito ma, nello stesso tempo, bene accetto purché partecipi al gioco (40 anni fa Flaiano aveva già capito tutto), viene fuori una festosa coazione a ripetere, l’eterno ritorno dell’identico. Non a caso la più brava, la «vera vincitrice del Festival», è stata un’imitatrice, Virginia Raffaele. Sanremo ha la forza tranquilla della rassegnazione. E la rassegnazione permette a certe forze di accrescersi indefinitamente. Rassegnata la direzione artistica, rassegnata la regia (che più scolastica non si può), rassegnata la scenografia a omaggiare i talent, rassegnati i cantanti, specie quelli con i nastrini colorati. Ma tanta rassegnazione è un’energia incontenibile che contagia anche i più rassegnati di tutti, gli spettatori. Solo così si spiegano i numeri dell’audience. Sanremo è una sorta di tranquillante sociale. Ne abbiamo bisogno in questo momento? Non servirebbe una scossa di nuovi immaginari, di festività, di eleganza? Serve ancora stabilire se il Festival sia stato bello o brutto? Non converrebbe invece chiedersi se l’energia rottamatrice (già in fase calante?) debba anche incidere sulla missione del Servizio pubblico?