Leggere un racconto di Vuoi star zitta, per favore?, la prima raccolta pubblicata da Raymond Carver nel 1976 (da noi letta nell’edizione Einaudi 2012 – traduzione di Riccardo Duranti), è un po’ come pescare delle biglie da un sacchetto: tiri fuori la mano, contempli per qualche istante la perfezione e la lucidità dell’oggetto, e poi ti rituffi nel caos-caso indistinto, sperando che la pesca successiva completi di più le tue aspettative. Ventidue pezzi di un’America mediocre e precaria, in cui agiscono (o meglio non agiscono) personaggi inconsistenti che parlano senza aver niente da dire, gettati dentro a vicende che potrebbero aver luogo ovunque e da nessuna parte. Tutto questo, Carver lo maneggia con un’abilità che, senza troppe esitazioni, chiamerei volentieri genialità. Una precisione quasi chirurgica che taglia con un colpo secco nettissime tranches de vie dal flusso della vita, senza lasciare sbavature. I pochi passaggi della narrazione – pochissimi, ma tutti fondamentali – si srotolano davanti all’ignaro lettore in modo perfetto, dandogli l’impressione di aver capito tutto; e, poi, ecco le due righe finali, inesorabilmente spiazzanti, di fronte alle quali siamo costretti ad ammettere la sconfitta, riconoscendo di non aver capito assolutamente niente. I protagonisti di queste storie potrebbero essere i nostri vicini di casa… oppure, noi stessi potremmo tranquillamente entrare nei loro panni. Eppure, il nostro primo impulso è di allontanarcene, forti della più o meno fondata consapevolezza di essere superiori, migliori. Meglio esorcizzare l’assurdità di quei drammi nascosti tra le righe della pagina, drammi di uomini e donne indeboliti da tante piccole crepe, come vasi di terracotta trasportati da eventi incontrollabili.
C’è tutto un passato, dietro, tutto un groviglio di passioni e dolori che a noi è dato scorgere solo di scorcio, quando qualche fessura si apre attraverso il tedium vitae di uno di loro: «Tra i fumi dell’alcol, si chiese se c’erano altri uomini in grado di esaminare un avvenimento isolato della loro vita e cogliere in esso i minuscoli segnali della catastrofe che da quel momento in poi aveva cambiato il corso della loro vita». Vizi e virtù perdono qualsiasi connotato morale, di fronte alla banale desolazione di una quotidianità fatta di repressione, spietatezza, autolesionismo, una quotidianità priva di slanci vitali e completamente contorta su se stessa. Leggiamo di microcosmi soffocanti che trasmettono ansia e inquietudine, e stritoliamo con gli occhi sentimenti che si materializzano negli oggetti, mentre le parole perdono compattezza; e, nonostante questo, i dialoghi colpiscono con una micidiale dirompenza, soprattutto laddove risultano privi di contenuti. Carver costruisce tragedie impossibili, perché preannunciate ma mai attuate nel tempo del racconto. Innegabile, una volta terminata l’immersione nel langueur, avvertire quello stesso vuoto dentro di noi, vuoto lasciato dall’orrore, troppo difficile da dichiarare, di riscoprire quei frammenti tragici nella nostra stessa esistenza. Ma, del resto, noi non potremmo mai accorgercene… A meno che non decidiamo di darci a una spietata e terapeutica catarsi nella scrittura.