Panoramica su una Napoli nebbiosa e sterminata che si piega, (s)torce e plana su una carrozza dorata e rosso porpora in pieno stile artigianale Luigi XVI che trotta nel traffico appisolato partenopeo. Destinazione è una stradina che conduce ad una villa da favola: la Sonrisa. E una colonna sonora onirica (opera di Alexandre Desplat, The Tree of Life, Ruggine e ossa) che l’accompagna tintinnante, a metà tra Pinocchio e Il flauto magico. Il cancello bianco si spalanca ed entriamo, anche noi. E’ il lungo e magico piano sequenza che apre Reality di Matteo Garrone, Grand Prix a Cannes 2012. Una successione di immagini che introduce ad un’opera straordinaria, che coinvolge e angoscia dal primo all’ultimo minuto.
Felliniano sin nel midollo, con quella statua di Gesù a braccia aperte in mezzo alla piazza che troppo riecheggia la statua volante che apre La dolce vita, così come anche saldamente imperniato su un verace e rude (neo)realismo, Reality porta in scena l’eterno teatrino/varietà della vita. Ma non è la solita sceneggiata napoletana. La pellicola di Garrone trae energia e respiro dal dialetto napoletano, che la lega a doppio nodo alla terra, al popolo, all’odore di palombi e astici della pescheria amata e rinnegata dal protagonista Luciano (Aniello Arena). E’ lui il capostipite di un’umanità mostruosa (e obesa) nella ricerca di notorietà, nel tuffo estemporaneo di un provino al Grande Fratello fatto per gioco, per accontentare gli smaniosi figlioletti, origine di una condanna all’agorafobia infinita. Pur non volendo in principio, Luciano cascherà nel “grande gioco” con tutti e due i piedi, anche se nella fossa tele-scenica c’è caduto, per indole, sin dalla nascita. Luciano è uno showman, un chiacchierone, un mattatore della piazza, della scena, della ribalta. Non a caso il destino lo ha posto in un condominio che, visto dall’esterno, è una scena-fronte da teatro greco davanti alla quale inchinarsi tra tragedia e commedia, vita e Tv.
La fama ricercata lo condurrà alla pazzia, al terrore più indistinto sul mondo e sulle relazioni, ad una paura continua di essere seguito, pedinato, osservato, giudicato. Così tra fede e (s)fortuna, speranza e follia, il protagonista ribalta la sua vita come il cilindro di un mago fino a “fingersi” un forzato San Francesco d’Assisi trapiantato in terra partenopea, un buon samaritano che regala tutto ciò che ha per un fine marcio (ma che lui crede nobile). Al fianco dello strabiliante Aniello Arena (detenuto-attore della Compagnia della Fortezza di Volterra) ci sono poi i volti giusti: una straordinaria Loredana Simioli, l’esile “insetto stecco” Nando Paone, l’abnorme Nello Iorio, la riccioluta e popolana Giuseppina Cervizzi.
Chiave di lettura di questa parabola umana sono le paillettes (o lustrini), con il loro andare e venire di luce e non-luce, vita e non-vita (riflessa). Sono queste a dominare nel vestito in maschera da drag queen indossato da Luciano alla festa di nozze iniziale, sulla sua maglietta/gilet al primo provino, sulla t-shirt indossata dalla moglie Maria e stropicciata dalle paffute manine della figlia alle tanto bramate audizioni. Le paillettes come neon acidi a corrente altalenante, come quel grillo-lucciola che interroga e intimorisce Luciano, come star che vanno, vengono e mai rimangono.
Reality è inoltre un crescendo emozionale perché Garrone svolge il doppio e contemporaneo ruolo di regista e operatore alla macchina. Mente e braccio sono una cosa sola, e ciò passa allo spettatore come una maggiore consapevolezza e profondità del significato che, in immagini, si vuole veicolare. Ma non solo. L’incisività si sbilancia anche grazie al suo noto “lavorare a sequenza”, cioè con ordine cronologico delle scene. In questo modo l’enfasi e il pathos si rafforzano, mentre gli attori sentono sempre più lo sviluppo del proprio personaggio.
Concludendo, è capolavoro anche quel finale “con (non) scasso” e risata grassa e ghignosa che è contrappunto calzante a tutta la “tragedia” narrata. Garrone chiude in modo circolare il suo film: così come vi era atterrato, così ri-decolla mostrandoci, procedendo verso una distanza sempre più siderale, la presenza di una stella luccicante e soffusa sulla terra, destinata a spegnersi, oscurarsi, tornare nel comune e confuso anonimato. Così sarà per Luciano, non per il Grande Garrone.