Il costante, insistente, martellante rincorrersi su tutti i media delle descrizioni ricche di dettagli macabri e perversi e delle ipotesi, dei commenti, delle interpretazioni su dinamiche e moventi del delitto di Avetrana sono l’ennesima conferma della teoria che sta alla base delle scelte editoriali delle major del libro: l’orrore tira sempre, stuzzica l’attrazione morbosa che, noi tutti, abbiamo per l’oscuro che ci abita.
Bruno Vespa, il terribile Milo Infante, Lamberto Sposini (un trittico di nomi che, solo a sentirli, sembrano estratti dal soggetto di un film di Dario Argento) sguazzano nel sangue delle vittime come i protagonisti della truce trilogia di Stigg Larsson, e gli ascolti volano alle stelle.
Non sarò certo io a fare del banale e fasullo moralismo, o a scandalizzarmi del comune gusto per il raccapriccio; io stesso, quando il conduttore di turno anticipa nuove scottanti rivelazioni e poi lancia la pubblicità, resto incollato alla tivù per sapere cosa accadrà subito dopo lo spot degli assorbenti interni.
Ci piaccia ammetterlo o no, credo che una innata forma di fascinazione per il malvagio ed il funereo faccia parte della nostra essenza di uomini e donne.
Spero però che non mi si fraintenda: sostenere quanto sopra non significa giustificare od assolvere tutte le bieche speculazioni che su queste storie vengono costruite. Con le mie parole mi preme solo sottolineare che, volenti o nolenti, tutti noi siamo soggetti all’irresistibile richiamo del male.
Seguire ogni giorno i nuovi capitoli del thriller pugliese, proprio come sfogliare pagina dopo pagina “Uomini che odiano le donne”, ci fa godere di paura, ci elettrizza respingendoci e, inevitabilmente, ci avvicina alla nostra più reale natura di esseri mortali e circondati dall’ignoto.
Non ci sono dubbi che il caso Scazzi sia il best seller del momento, più venduto dei gialletti all’acqua di rose di Camilleri o dei polpettoni di quel morto di saghe di Ken Follett. Una ragione ci deve pur essere.
Anziché limitarsi a una scontata e conformistica indignazione di facciata, io credo sia più giusto capire come mai tutto ciò accada.
E come risposta a tale quesito, mi è tornato in mente uno straordinario paragrafo di Moby Dick che – sperando Melville non me ne voglia – riporto qui di seguito (nella traduzione di Lara Fantoni:
“Come la profonda calma, che solo apparentemente precede e profetizza la tempesta, è forse più terribile della tempesta stessa, perché la calma è solo l’involucro e l’incarto della tempesta, e la contiene in sé, come il fucile che sembra innocuo contiene la polvere, il proiettile e l’esplosione fatali; allo stesso modo l’aggraziato riposo della lenza quando serpeggia tra i rematori prima di entrare realmente in azione è una cosa che fa più terrore di ogni altro aspetto di questa pericolosa faccenda. Perché aggiungere altro? Tutti gli uomini vivono avvolti nelle lenze da balene. Tutti nascono col capestro intorno al collo; ma solo quando restano impigliati nei grovigli rapidi e improvvisi della morte si rendono conto dei pericoli onnipresenti, silenziosi e subdoli della vita. E se siete filosofi, anche se sedete in una lancia baleniera, non sentirete in cuore un briciolo di terrore in più di quanto non sentireste la sera a casa seduti davanti al fuoco, con accanto un attizzatoio anziché un rampone”.
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