Raccontare cinematograficamente l’impoverimento intellettuale e l’involuzione culturale della società italiana, e non solo, è diventato un compito piuttosto complicato. La realtà sociale e la televisione sono già da sole particolarmente esaustive. Ecco perché alcune scene del comunque bellissimo film di Garrone non graffiano mai, ma rimangono soltanto vane rappresentazioni di un reale al contrario estremamente eloquente e ricco di sfumature. La riproduzione sullo schermo di un matrimonio pacchiano, con tanto di vincitore del Grande Fratello in omaggio, dei provini, della vita quotidiana nella Casa e delle feste in discoteca è una semplice imitazione di un qualcosa di più grande; sarebbe più efficace scendere in strada, osservare, ascoltare o accendere la televisione per comprendere il fenomeno e il contesto culturale in cui è inserito. Il cinema inevitabilmente è costretto alla sconfitta. La televisione e il desiderio di una vita spettacolare, dove per spettacolare si intende la consacrazione di sé stessi al sistema mediatico, lo hanno vinto. Non è né colpa di Garrone né del cinema italiano se il piccolo schermo è riuscito nel suo intento: sostituirsi alla vita vera nutrendo gli spettatori e assorbendo la loro esistenza. «È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV». Woody Allen con questa affermazione chiarisce, sicuramente meglio della sottoscritta, il ruolo a cui è destinata ormai la settima arte, senza naturalmente scalfire la grandezza delle pellicole che hanno raccontato e descritto la società di massa in maniera perfetta. “Reality” nasce dalla fusione di due microfilm: il primo, dato dalla rappresentazione fittizia di provini, matrimoni kitsch, vincitori del Grande Fratello e situazioni che un qualsiasi servizio delle Iene o un programma della Gialappa’s avrebbero raffigurato in maniera più esauriente dal punto di vista antropologico e sociologico, perché reali e spettacolari nello stesso momento, e una seconda parte che dà senso all’intero lavoro e ci fa rendere conto di come l’opera di Garrone non sia un film sul Grande Fratello, così come “Il Caimano” non era un film su Berlusconi.
L’elemento tragico sta tutto nella seconda parte, non perché il regista ci dica quanto sia brutta e cattiva la televisione, ma perché da lì inizia a rappresentare lo smarrimento esistenziale dell’uomo moderno, che ormai potremmo definire ultramoderno. Di questo vuole parlare “Reality”, del disorientamento umano, del bisogno di riscatto e della ricerca di un senso che probabilmente solo la finzione spettacolare può dare. In un reale retto dai media, in cui vita e messinscena si fondono e si annullano l’una nell’altra, il fine ultimo si trova nei media stessi. Nonostante non riesca mai a toccare i vertici tragici di “Gomorra”, “Reality” è un’opera funerea, disillusa ed estremamente lugubre, al di là dei colori e della magnifica fotografia; tenta di essere lo specchio di ciò che intende raccontare, ma è lì che si infrange. Segue la scia dei numerosi saggi e libri dedicati alla cattiva maestra televisione non aggiungendo niente di nuovo, non perché non ne sia in grado, ma perché in questi sessant’anni è stato detto tutto e la tv è bastata da sola a raccontare oltre che un Paese, l’intero globo. Garrone dimostra di avere curiosità intellettuale e di comprendere l’importanza del sistema mediatico, nonostante la frase infelice: «non guardo la tv, faccio un altro mestiere». Un’affermazione che, soprattutto dopo la visione del film, appare narcisistica e fuori luogo, in linea con i principi degli snob di casa nostra, i quali preferiscono curare lo spirito disprezzando e ignorando l’unico mezzo in grado raccontare perfettamente il nostro Paese.
Una nuova religione sostituisce o affianca quella tradizionale, un credo dalle radici mondane, ma in grado di dare le stesse speranze e le stesse certezze di una qualsiasi fede: la religione delle immagini. E anche qui niente di nuovo. Il finale, che non starò qui a svelare, segue questo parallelismo e guida verso un paradiso effimero, una sorta di eden mediatico, in cui l’esistenza acquisisce un senso. Si vive attraverso un sistema dominato dai mezzi di comunicazione, il messaggio di Garrone è semplice e diretto. Probabilmente ci troviamo di fronte al più grande regista italiano degli ultimi anni, quindi potremmo anche perdonargli quell’eccesso di snobismo causato da un virus che da troppo tempo aleggia sulla penisola italiana, quello del cinema d’autore autoreferenziale. Lo stesso virus che lo ha spinto a riproporre sullo schermo una versione posticcia e inconsistente del Grande Fratello, che mai avrebbe potuto superare la grandezza dell’originale, così come una Claudia Gerini qualsiasi sarebbe stata una copia deforme delle reali presentatrici. Se c’è una cosa più brutta dei programmi televisivi probabilmente è l’imitazione degli stessi. L’eccesso di snobismo e intellettualismo non deve però colpire anche gli spettatori, perché nel lungometraggio di Garrone, tra lo smarrimento esistenziale e la potenza dei media, una sola verità risuona: siamo tutti Luciano. Nessuno è immune.