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I 75 minuti dedicati a The Ceremony non si rimpiangono.
Si tratta di un documentario intellettualmente impegnato e non di una sorta di manuale descrittivo del bondage. Perché la pellicola, potente e fascinosa, va al di là del materiale ad alto tasso erotico e sostanzialmente si trova ad affrontare temi più comuni come quello dell’amore. Amore che intercorre fra la maîtresse e i suoi adepti.
Sfruttando un virtuosismo narrativo che rispecchia nella sua struttura la stessa ossatura di certe cerimonie sadomaso (un inizio lento e minuzioso che è incipit di un processo drammaturgico costituito da attese e azioni, centellinate nel tempo e nella loro durata, seguito da una determinata rappresentazione erotica all’interno della quale si raggiunge l’apice di una drammatica tensione per permettere alla “maestra di rituali” di fare la sua entrata in scena), ci viene presentata misteriosamente la figura di Catherine Robbe-Grillet, fulcro di questo documentario, che non lascerà mai del tutto la coscienza dello spettatore.
Si tratta di una vecchina all’apparenza molto soave e distinta ma che turba il pubblico perché è lei la donna a cui tanti hanno fatto giuramento di fedeltà, offrendole la loro libertà e accettando il fatto di essere mentalmente e fisicamente di sua proprietà per il resto della loro vita. Una schiavitù amorosa che si regge in piedi nonostante, per esempio, una delle sue dominate non si senta minimamente attratta dalle donne e, questo, perché il legame fra le due, ma anche con uno qualunque dei suoi sottomessi, è pura idealizzazione di un amore irraggiungibile, pura espressione del bene per lei, pura e genuina folle dipendenza e frutto di un magnetismo che li spinge ad andare e venire ma, sempre verso Catherine, per la quale lotterebbero fino alla perdita di tutte le loro energie.
Buona parte della sceneggiatura prende spunto dagli aspetti più intimi della vita di queste persone. Sono uomini e donne con le quali la documentarista ha speso un sacco di tempo, conoscendo addirittura le loro famiglie e i loro amici. È attraverso la loro voce, i loro volti e i loro discorsi che arriviamo a Catherine. Ma chi è veramente Catherine? Chi sono veramente loro? Perché non la vediamo? Conversazione dopo conversazione, si anticipa la sua immagine, che è quella di una donna abituata a gestire tutto. Lentamente, scopriamo il suo passato, quello di una ragazza che frequentava un collegio di suore (un luogo che lei vedeva come una specie di scuola di fantasie erotiche per i benpensanti), la malattia del padre, l’impossibilità di pagare le tasse scolastiche, le umiliazioni subite dalle religiose per essere povera fra i ricchi, la decisione che quella sensazione non sarebbe mai più stata provata e che quella traumatica ferita che le era rimasta dentro sarebbe guarita attraverso la sperimentazione sessuale e la riorganizzazione della sua esistenza, seguendo un cammino atipico che si è spinto verso nuovi, personali e affascinanti limiti. E poi c’è il matrimonio, la vita coniugale in una relazione aperta, il suo ruolo di musa e moglie, l’entrata all’interno di un élite intellettuale, i lavori di scrittura negli Anni Cinquanta (i suoi libri furono pubblicamente bruciati sul rogo per essere di natura altamente erotica).
Catherine che non ha figli. Catherine che ha scelto di vivere in questo modo e di esporre se stessa con misura. Catherine che un tempo è stata sposata con una persona molto più famosa di lei (è la vedova dello sceneggiatore e regista Alain Robbe-Grillet) e che preferisce l’ombra alla luce. Catherine che ha fatto della sua vita un’opera d’arte all’erotismo e che ha preso sul serio questa scelta, tutte le sue conseguenze e le responsabilità che comporta.
Stupisce la maniera diretta e fiduciosa con cui la Madame, sempre elegante ed eloquente e con voce forte e fiera, espone alla telecamera la sessualità femminile in termini di umiliazione. Un argomento che per lei è facile da affrontare, perché nitida della propria razionalità e perché buona comunicatrice. Turba, invece, la spiegazione della ritualizzazione dei rapporti sessuali nella misura provocatoria e sottile in cui vengono concepiti. Si tratta, come ha scritto qualcuno, dell’«antitesi della pornografia».
Ogni scena sessuale voluta da Catherine è una sfumata opera d’arte che si aspira e che incorpora diversi elementi di se stessa e dell’altro, convergendo in qualcosa di favoloso e assolutamente interessante. Si rende così più chiaro il fatto che non è facile essere “registi del sesso”, non è facile togliere emotività e istinto a qualcosa che è prettamente basato su queste due pulsioni, e che gioca con questi meccanismi, con i suoi punti di forza e le sue debolezze.
Dunque, un documentario che parla apparentemente di sesso ma che è un’esplorazione interna del potere dell’essere umano sull’essere umano, perché Catherine e i suoi affaires sono uno specchio della realtà. Una realtà in cui Catherine afferma che «chiunque può decidere chi essere, chiunque può farlo» e che la sicurezza e la padronanza in ogni situazione non è necessariamente una capacità innata ma, una presa di coscienza che scatena l’immagine di come noi vogliamo essere immaginati e percepiti dagli altri e, quindi, la formazione di una nuova identità.
Ogni persona intervistata dalla Mannheimer è un tripudio di metafore, aggettivi e sentimenti snocciolati in un climax all’apparenza borghesissimo. Eppure, non si imbarazzano nell’affermare di considerare bello e piacevole ciò che è un’immorale atto di sottomissione totale, rendendo credibile quella passione per un luogo oscuro e inesplorato che è la mente della loro piccola dominatrice.
Piacere femminile e sessualità trovano la loro rivoluzione in scene scioccanti che danno adito al pensiero che questo modo di vivere possa essere umanamente possibile e persino quasi più pudico di reality come il “Grande Fratello” o della condivisione dei dettagli più scioccanti e intimi della vita di chi cerca 15 minuti di celebrità in un talk show. Il loro modo di esporsi nell’atto sessuale, esula dall’esecuzione. Non si tratta di un “fare” ma di un vero e proprio spettacolo che deve rimanere intimo e privato, quasi sacro. Lungo tutto il documentario c’è una consapevolezza acuta di ciò che avviene e non avviene, nonché una negoziazione affettiva e complessa ma, sempre palpitante d’amore.
Le inquadrature sono eleganti e il montaggio crea una coreografia distinta che ci permette di fare un passo indietro e di guardare all’affresco come si farebbe di fronte al quadro di un dio amato e temuto che premia solo chi segue la sua dura disciplina e offre punizioni amorevoli a chi la infrange. Lo stile di regia va dalla fiction all’arte audiovisiva al documentario, supportato da una fotografia sublime nelle parti dei cerimoniali e che sfrutta la penombra e la potenza del vinaccia e del nero, due colori che accentuano teatralmente una forma d’arte psicologica e sensuale e rendono splendido lo scenario signorile e parigino, nel quale si può sentire il fruscio dei nastri di seta intorno ai polsi. Con intensità, soddisfazione e piacere per il gioco, The Ceremony è una ritualizzazione e una sacramentizzazione dell’erotismo. Più alto di letture da supermercato come “50 sfumature di grigio” e più vicino invece ai graffianti Sade, Sacher-Masoch e Bataille.
Fabio Secchi Frau