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RECENSIONE A FREDDO – Padroni di casa (2012)

Creato il 19 novembre 2014 da Fabioeandrea

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Recensione ospitata su  

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Seconda regia del buonissimo attore Edoardo Gabbriellini (la prima era B.B. e il cormorano), che era stato scoperto da Paolo Virzì con Ovosodo, Padroni di casa è un film che bisogna affrontare con calma, senza lanciarsi a capofitto, senza pretendere di capire tutto e subito. Ci vuole il tempo necessario perché il regista serva tutte le portate e per accordarsi con le armonie della narrazione. Armonie fluide, avviluppanti e cadenzate. Bisogna rallentare il ritmo dei ragionamenti, inzupparsi nelle sfumature, respirarne le atmosfere asfittiche, vederne l’assenza di colori e aguzzare la vista al buio.

Una pellicola scritta con la schiettezza di un dramma classico nostrano (di quelli che si vedono sempre più di rado al cinema) ma, incentrato su tematiche attuali e sul gioco dei contrasti: la vita quotidiana dell’uomo comune e quella dell’uomo famoso; la prudente distanza e lo scetticismo di un fratello e l’estroversione dell’altro; la triste e flemmatica depressione della moglie e la vitalità del marito etc. E tutto questo per spiegare come non sempre la vita agiata e le abitudini rassicuranti siano un paradiso bensì, un crogiolo di solitudini, rimorsi e rancori. «Cosa c’è che non va in te?», sembra che si dicano continuamente fra di loro (ma anche allo specchio, magari anche prendendosi a schiaffi) i quattro protagonisti di questa storia, diversamente sensibili e con problemi irrisolti che li portano all’isterismo. Come li descrive uno dei protagonisti principali: «Tutti personaggi fragili, incapaci di essere animali sociali».

Un quadro “hopperiano” (e scusate se uso la deformazione del cognome del noto pittore statunitense come aggettivo, ma è calzante) ben retto dagli interpreti (Elio Germano, Valerio Mastandrea che qui è anche co-sceneggiatore, Gianni Morandi e Valeria Bruni Tedeschi) che si rivela agli occhi dello spettatore con un misurato, accurato, ma anche terribilmente intimo ritmo, nella misura in cui può essere terribilmente intimo spiare all’interno delle finestre altrui.

Gabbriellini riesce, ancora una volta, a mostrarci una parte di una società italiana, concentrandosi su una realtà in cui il vero dialogo comunicativo non è ancora stato sperimentato (né preso in considerazione) e in cui le paure ataviche di ogni individuo prendono il sopravvento sulle loro pacifiche ma complesse esistenze.

La colonna sonora, nella sua invisibilità, è la parte più debole di tutto il film. Nulla possono le note create da Cesare Cremonini, Stefano Pilia e Gabriele Roberto.


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