Al bel film “Mio fratello è figlio unico“, di Daniele Luchetti, corrisponde un buon libro, più complesso e assai più disturbante della narrazione cinematografica. Accio Benassi è una sorta di Gianburrasca moderno, molto violento, nato a Latina e con una sola fede oltre a Gesù: il Duce e le sue bonifiche dell’agro pontino. Ma la vita è varia e i fratelli sono tanti (qui addirittura sei, mentre nel film solo due), e l’Italia passa dalla crisi di Cuba del 1962 agli anni di Piombo. E Accio si rende conto che l’MSI e i suoi camerati non sono poi così puliti… in seguito a una crisi di coscienza, diventa anarchico, poi comunista e quindi rivoluzionario.
Ciò che colpisce non sono tanto i radicali cambiamenti di fede politica, quanto il modo del tutto privo di empatia con cui Accio vive la sua “violenza necessaria” contro altri esseri umani. Va in giro con catene o mazze ferrate da spaccare in testa al “nemico”, che sia rosso o nero non ha importanza. Fa tutto coprendolo sempre di una patina di apparente inconsapevolezza, che è poi una carica di pura disumanità. E’ per questo che il libro disturba così tanto. Sembra a tratti di leggere le confessioni di un ultrà del calcio, che racconta i suoi scontri e li giustifica ammantandoli di ingenua inconsapevolezza. ***SPOILER*** Accio arriverà a uccidere con un pugno quello che fu un suo amico, a vedere il fratello ucciso a cinque metri da lui, e riuscira sempre ad allontanarsi a piedi da questi eventi così micidiali registrando al massimo la “legnosità delle gambe”. Alla fine c’è una dorta di redenzione, o di ricerca di uno spessore umano, tornando nei luoghi che furono del seminario. Ma rimane il dubbio: quanti uomini sono fatti così? ***FINE SPOILER***
Un romanzo importante, che prende per mano il lettore e lo fa entrare nella mente di un fascista del dopoguerra, nella terra ancor oggi più mussoliniana d’Italia. Un romanzo che spiega quanto fossero contigui i famosi “opposti estremismi”, e come fosse possibile passare da un estremismo all’altro. Una saga familiare, anche, con una mamma ingiusta e cattiva, con dentro di sè una capacità di violenza perfino nei confronti dei propri figli che non si può giustificare nemmeno tenendo conto del contesto dei sette figli e degli anni Cinquanta e Sessanta di provincia.
Antonio Pennacchi è un collaboratore di Limes e questo romanzo ha tutta l’aria di essere molto autobiografico. Con la speranza, in definitiva, che ci sia molto di inventato, o che per lo meno l’autore sia diventato un uomo capace di empatia tramite la sua talentuosa scrittura.