American Sniper, un film di Clint Eastwood. Con Bradley Cooper, Sienna Miller, Luke Grimes, Jake McDorman.Chris Kylie, il più grande cecchino della storia militare americana, 160 vittime accertate durante la guerra in Iraq. Dalla sua autobiografia è tratto questo film di un patriottismo netto, senza ombre, un film di guerra con al centro un eroe venuto dall’America profonda. Ma a non convincere è ben altro, è il versante sentimental-familiare della storia, e il tocco stranamente sfuocato e non così sicuro di Eastwood regista. Voto 6 e mezzoCi voleva il veterano Clint Eastwood per raccontare la storia del cecchino, o tiratore scelto, Chris Kylie del corpo speciale dei Navy Seals, 160 vittime accertate durante il suo soggiorno iracheno diviso in quattro turni di una decina di mesi ciascuno. I compagni lo chiamavano Leggenda, gli altri, quelli che stavano di là, i nemici, lo chiamavano in arabo Shaitan, il diavolo. Tutto detto e scritto nel suo libro autobiografico da cui American Sniper è stato tratto. La cosa bella, molto bella di questo film che pure di difetti ne ha più d’uno, è di essere un inno senza senza dubbi né pentimenti né autocritiche alla patria americana, il racconto di una guerra dal punto di vista di chi l’ha fatta credendoci, e con orgoglio. Davvero convinto che andando laggiù si sarebbe fatto il bene del’America e del mondo tutto. No che non deflette, Chris Kylie, non ha mai ripensamenti sulla bontà della sua missione, e su quella del suo paese. Se cercate autoflagellazioni sulla guerra in Iraq avete sbagliato film, cercatele, al cinema, da un’altra parte, che i film con mea culpa incorporato non mancano. Lo dico subito, e chiaro: ho trovato meraviglioso questo americano qualunque e piuttosto rozzo venuto dall’America più profonda e più burina, quella delle campagne texane, quella schifiltosamente mal guardata dalle intellighentsie di West e soprattutto East Coast. Venuto da quell’America che ancora si ostina a credere in se stessa, in Dio, nella famiglia. Kylie è uno di quegli eroi, ancora prodotti al proprio interno dall’impero americano, straordinariamente umani, mai boriosi, innervati nel loro profondo da un senso di democrazia quasi genetico, inclini alla compassione verso gli sconfitti e i diseredati. Eroi che incantarono anche gli italiani sconfitti del dopoguerra, non umiliandoli dall’alto della loro vittoria e del loro immenso nuovo potere. Ecco, quando il film si mantiene stretto sul suo main character, sulle sue pur elementari psicologie, sui rapporti con i compagni di squadra, è notevole. I guai stanno nella prevedibile e noiosa e anche fastidiosa parte familiar-sentimentale. Kylie che impara a cacciare dal papà, Kylie che conosce la donna della sua vita (una donna un filo interrotta che però con lui rimetterà insieme i cocci), Kylie e i figli. Forse per motivi di marketing e per non disturbare le platee femminili con troppa guerra, a questo versante di coppia e di famiglia si dà parecchio spazio, col risultato che la signora Kylie ci fa la figura dell’isterica quando rinfaccia al povero marito, appena tornato dagli inferni di Falluja e Maradi dove non ci mettono niente a sgozzarti come un capretto, di essere distante, di non essere più lui, “e ti stai dimenticando di noi” e simili stupidate, che ti vien da dirle, ma scusi non lo sapeva quando l’ha sposato che era un Navy Seal? ma perché non s’è presa come marito un bell’impiegato della Bank of Texas che così stava tranquilla? Se l’obiettivo degli autori era quello di dar spazio al côté femminile della vicenda, il risultato – per la più classica delle eterogenesi dei fini – è che lo spettatore rimpiange i film bellici della Hollywood com’era dove le donne non si vedevano quasi e non eran d’impiccio agli eroi (e non telefonavano nel bel mezzo delle battaglie). Pure insostenibile perché già vista quel migliaio di volte al cinema è l’addestramento delle reclute, praticamente un copia e incolla di Full Metal Jacket, Ufficiale e gentiluomno e di un remoto film anni Ottanta dello stesso Eastwood, Gunny.
Quando va nei teatri di guerra con i suoi Navy Seals American Sniper acquista in spessore e densità, assumendo un respiro ampio e un epos che riecheggia molti classici del cinema bellico. Il soldato-eroe che non sbaglia mai e sembra impermeabile ai colpi del nemico (tratto dell’eroe è la sua intangibilità). La solidarietà e complicità virile tra commilitoni. Gli scherzacci e gli sfottò pesanti ma maschilmente affettuosi tra compagni di squadra. Gli amici persi in battaglia. Le missioni impossibili eppure vittoriose. L’impossibilità di spiegare cosa sia la guerra a chi se ne sta a casa. Cui si aggiunge qui lo specifico dei nuovi conflitti in area islamica, e dunque le azioni arrischiate in un mondo altro dove chiunque, anche le donne, anche i bambini, può rivelarsi un nemico letale. Le perlustrazioni casa per casa e la minaccia sempre incombente e come trasudanta da ogni pietra. Lo stress della guerra asimmetrica, del combattere un avversario che può nascondersi dapppertutto e che non riesci a identificare mai con certezza. Le imboscate. Gli attentati kamikaze. Le esecuzioni spietate dei presunti collaborazionisti. Di postmoderno e di contemporaneo rispetto, per dire, a John Wayne e altri american heroes del cinema passato, è il carico di tensione che si accumula man mano in Kylie, quel peso sordo dalle parti del cuore e delle viscere, è il trafficare durante le pause americane tra un turno e l’altro in Iraq con gli psicologhi e i medici che parlano di Posttraumatic Stress Disorder. Ecco, John Wayne. Qualcuno ha già infamato American Snider parlandone come del Berretti verdi della nuova era di guerre imperiali, e solo la presenza alla regia di un autore venerato a sinistra come Eastwood ne ha impedito finora la completa demonizzazione. Ripeto, a me l’evidente patriottismo non ha infastidito. Ai limiti del film di cui ho già detto aggiungerei che anche le parti di guerra, il nerbo vero della narrazione, sono di molto inferiori a quelle di un film analogo come The Hurt Locker, dove Kathryn Bigleow – anche grazie a una sceneggiatura migliore – sapeva rendere con più intensità e stile il senso di costante minaccia che attanagliava i suoi americani dislocati dalle parti di Baghdad. Si ha l’impressione, anche nelle scene di guerra, di un Eastwood dalla mano non più così sicura. Restano intatte la sua sobrietà, l’assoluta mancanza di retorica e corrività sentimentale, ma la sua ben nota sveltezza nel girare qui rischia di diventare approssimazione, se non proprio sciatteria, che è una brutta parola che lui non si merita. La vera debolezza di American Sniper non sta nell’inneggiare alla bandiera, ma nelle esitazioni del tutto impreviste della regia. Ho letto commenti malevoli sulla performance di Bradley Cooper, temo che chi li ha detti e scritti abbia confuso il personaggio (così semplice nella sua elementare umanità da sembrare ottuso e bovino) con l’interprete. Credo invece che Cooper dia prova qui di essere un attore vero, spogliandosi di ogni glamour da bellone, proletarizzandosi d’aspetto, ingrossandosi di una ventina di chili, levandosi ogni barbetta hipster-tirabaci. Diventando in una immedesimazione abbastanza impressionante il texano pezzo-di-carne che ha da essere. Tant’è che io lo includerei nella cinquina dei nominati all’Oscar, altro che Benedict Cumberbatch. Sienna Miller in versione bruna è davvero brava nonostante la petulanza del suo personaggio, ed è quasi irriconoscibile per chi come me se la ricordava bionda (è la sua seconda performance notevole di quest’anno, dopo quella in Foxcatcher, presentato il maggio scorso a Cannes e non ancora uscito da noi). Faccio una domanda a inviati di guerra in Iraq e esperti vari del ramo conflitti in territori islamici: ma è credibile che l’implacabile cecchino arabo (per la precisione siriano) che vediamo nel film prima installato a Falluja, area notoriamente sunnita, rispunti poi a Sadr City, il megaquartiere sciita di Baghdad? Com’è possibile che un sunnita vada a combattere tra gli sciiti, visto che le due etnie in Iraq, e non solo lì, sono fiere avversarie per non dire peggio? A proposito: gli arabi di American Sniper sono rappresentati secondo i più logori cliché, occhi di brace, linguaggio del corpo e dei gesti survoltato, fanatismo esagitato. Era proprio il caso? Anche al nemico bisogna saper dare tratti umani. Ovviamente non si è girato in Iraq, e come si sarebbe potuto? Gli esterni son tutti in Matrocco, che finge bene di essere di volta in volta Falluja, Ramadi e Sadr City-Baghdad. Anche Ridley Scott per la Somalia di Black Hawk Down era andato a suo tempo in Marocco a girare, ormai – temo – l’unico paese con minareti e scritte in arabo dove una troupe americana possa ancora lavorare in tranquillità.
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