Aspirante vedovo, regia di Massimo Venier. Sceneggiatura di Ugo Chiti, Michele Pellegrini, Massimo Venier. Con Fabio De Luigi, Luciana Litizzetto, Alessandro Besentini, Francesco Brandi, Clizia Fornasier, Bebo Storti, Ninni Bruschetta. Una produzione Ibc Movie con Rai Cinema. Prodotto da Beppe Caschetto.
“Ispirato a Il vedovo“, dicono i titoli di coda. Ma di quel mitologico film di Dino Risi con Franca Valeri e Alberto Sordi questo sembra proprio il remake: storia molto simile, personaggi pure. Un brutto remake. Messinscena sciatta, ritmo blandissimo e soporifero, battute strascicate da casa di riposo del comico. Due protagonisti che, per tratti fisici, modi, voce, non sono mai credibili come borghesi. E si arriva, in una comicità paratelevisiva, stancamente alla fine. Voto 4
I credits finali dicono: ispirato al film Il vedovo. Ispirato? Ma questo è proprio un (orrendo) remake, altroché, la struttura narrativa è tale e quale, poi certo c’è la cosiddetta attualizzazione-contemporaneizzazione, qualche variazione nella parte finale, ma perfino i cognomi di lui (Nardi) e lei (Almiraghi) son gli stessi, e non si dica che è solo un affettuoso omaggio. Ma chi gliel’ha fatto fare al trio Luciana Litizzetto-Fabio De Luigi-Massimo Venier di confrontarsi con un classico della nostra cinecommedia (anno 1959), tra le non molte dark e black comedy belle che siamo riusciti a realizzare, giacché siamo italiani, mica inglesi. Quello era un prodotto perfetto, e non è solo l’effetto nostalgia. Tutto e tutti erano sublimi, a partire dalla sciura milanese Franca Valeri, sempre lì a dare del cretinetti a quell’inetto di marito incapace e parassita, un formidabie Alberto Sordi di viscida nullità, e poi la sceneggiatura di Sonego-Carpi-Risi, e la regia del nostro regista più cinico di sempre, Dino Risi (sì, più di Monicelli e Ferreri). Ovvio che la troika che si è cimentata con questo Aspirante vedovo esca dal paragona stritolata, e ben gli sta, per come in questo film si è abbassato e sconciato mal copiandolo un modello altissimo. L’impressione, guardando Aspirante vedovo, è che nessuno degli implicati si sia reso conto pienamente della delicatezza dell’operazione, vista la corrività e l’aprossimazione con cui la si è condotta. Dialoghi che gridano vendetta, battutazze da minuscolo e angusto cabaret televisivo, ritmo da casa di riposo e tempi dilatatissimi, estenuanti. Ma Dio mio, se già alla fine degli anni Trenta Howard Hawks nelle sue commedia sparava a mitraglia parole e battute, com’è possibile che qui, anno domini 2013, siamo al trionfo del comico posapiano con rantolo? Problema comune a quasi tutto il cinema da ridere, intendo che vuole far ridere, made in Italy. Penso anche ai film di Aldo Giovanni e Giacomo, con battute sempre telefonatissime e di una machinosità da vecchia Breda. Quella cosa che si chiama tempi comici, quella cosa che chi veniva dall’avanspettacolo possedeva come dote quasi genetica: ecco, in Aspirante vedovo latita, anzi proprio non c’è. Nella prima parte soprattutto si rischia l’asfissia per noia, e vien voglia di scappare, di andarsi a cercare un cinema dove diano, che ne so, il meraviglioso Facciamola finita, quel film pazzo e americano dove si sparano tre battute al secondo e non c’è un attimo di tregua. La storia chi conosce il bellissimo prototipo la sa già, comunque eccola debitamente aggiornata ai tempi nostri e alla Milano 2013. L’imprenditrice-finanziera (non si capisce bene cosa faccia, ed è uno dei problemi del film: si capisce solo che ha e fa i soldi, tanti) Susanna Almiraghi è una pescecanessa degli affari sposata a un nulla d’uomo, uno che ha sì un’impresa sua di costruzioni, impegnata nell’edificazione della Milano che sale dei nuovi grattacieli, però piena di debiti e sull’orlo perenne del default. Tanto, pensa lui, ci pensa lei, per quanto arpia, a ripianare i debiti. Però la sciura Susanna è stanca di quel consorte-macigno-sanguisuga, mantenuto, inabile a tutto e capace solo di perdere soldi e di spremerne. Tant’è che lo svergogna e sbertuccia in pubblico senza pietà, lo umilia, lo calpesta, e lui a mandar giù bocconi amari. Lui che intanto si consola con una ragazzotta veneta genere bonazza oca, di cervello bonsai ma abbondanti curve, allegramente prostituita dalla sua famiglia al (presunto) ricco che li mantiene tutti e paga affitto e bollette. Finché la Susanna Almiraghi (nell’originale di Risi era Elvira) scompare in seguito a incidente aereo in Romania mentre si appresta a raggiungere una qualche sua fabbrichetta delocalizzata da quelle parti. Al vessato principe consorte, al mantenuto Alberto Nardi, non par vero di essersi liberato dell’arpia e di poter mettere le mani sul cospicuo patrimonio, tant’è che la veglia funebre in villa (in assenza di salma) si trasforma ben presto in una festa, con già la ragazzotta amante a far da padrona di casa. Ma oplà, ecco che la defunta, in realtà mai defunta, dopo tre giorni ricompare, e per lui, Alberto Nardi, son di nuovo cazzi amari. Non resta, pensa a questo punto lo sfigato, che ammazzarla. Non vi dico il resto, che è parecchio. Salvo che per il doppio e un po’ contorto finale, l’ossatura è la stessa del film di Risi, i caratteri uguali. Solo che non ci sono Franca Valeri e Alberto Sordi, due monumenti, non c’è Risi, non ci sono quegli sceneggiatori fantastici da Golden Age del nostro cinema. Tutto è involgarito, banalizzato, piallato, semplificato, depotenziato. Un cinema derivativo, che purtroppo ha a suo vero modello Zelig (inteso come tv) più che la tradizione della commedia all’italiana, solo citata, mal copiata e mai capita davvero. Cinema di una ristrettezza di orizzonti paurosa, povero, sciatto, inesorabilmente minore e minimo. Non c’è una invenzione di messinscena, solo la pedissequa impaginazione di un già non eccelso copione. Aggiungiamoci, e pure ulteriormente peggiorata, la cronica incapacità del nostro cinema – sempre plebeo, sempre lumpenproletario, sempre popolano e stracciarolo – a raffigurare con un minimo di credibilità il mondo dei soldi, dei ricchi, della borghesia, dell’imprendtoria. Quando Luciana Litizzetto e Fabio De Luigi e gli altri parlano di aziende, investimenti e quant’altro son sempliemente ridicoli. Qualcuno davvero può credere alla fola della Susanna Almiraghi che sperduta in un remoto villaggio rumeno riesce a disinvestire-investire e guadagnare in tre giorni 12 milioni? Vien da piangere. Ma gli autori non hanno mai visto film americani come Margin Call o Arbitrage, dove si parla di soldi e finanza e quant’altro con cognizione di causa senza cadere nella finanza immaginaria da giocatori tutt’al più di monopoli? Ancora una volta nel nostro cinema il mondo dei ricchi è un mondo di stronzi schifosi al limite del criminale, di pupazzoni immondi e ignobili. Riflesso di un paese eternamente e profondamente populista che ha in spregio e in odio i soldi (degli altri), sempre visti come sterco del diavolo, e ha in spregio chi li fa. L’inadeguatezza dei due protagonisti poi, fin dalla fisicità, dalla fisiognomica, fin dai gesti, dalle posture, dalla voce, dalla mimica facciale. Litizzetto e De Luigi non sono mai, nemmeno per un secondo, attendibili come borghesi, non ne hanno l’aria, prigionieri e ostaggio come sono di se stessi e dei propri personaggi passati, della loro appartenenza a quella cultura satireggiante, televisiva e non, vagamente contestataria, vagamente di opposizione, vagamente goscista. Non si può sputare per una vita sui poteri e i potenti e poi interpretarli, finisce che non ti crede nessuno. Litizzetto, che di talento ne ha a dismisura, perde l’occasione di scolpire come si deve un personaggio che pure le sarebbe congeniale per durezza e disincanto e se si pensa non solo alla Franca Valeri di Il vedovo, ma anche a un’altra sciura e stronza milanese, la Mariangela Melato di Travolti da un insolito destino, vien da piangere. E sant’Iddio, chi l’ha vestita in quel modo? Quei capottoni con collo sciallato, quegli abitazzi che ne fanno la peggio vestita del nostro cinema da parecchio tempo in qua. Quanto a bruttezza, Aspirante vedovo non si risparmia nulla. Ma l’avete vista la locandina? Certo ci vuole del talento alla rovescia per tirar fuori una simile sconcezza.