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[Recensione] Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy

Creato il 26 ottobre 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

[Recensione] Cavalli selvaggi di Cormac McCarthyTitolo originale: All the Pretty Horses
Autore: Cormac McCarthy
Editore: Einaudi
Genere: Literary fiction
ISBN: 9788806184513
Anno: 1994
Pagine: 299
Prezzo: 11.50€
Disponibile in ebook:

Cormac McCarthy è da molti considerato, assieme a DeLillo, Roth e Pynchonì, il più importante autore statunitense vivente. È autore, tra l’altro, di Meridiano di sangue, che è stato definito il romanzo americano per eccellenza, e di La strada, che nel 2007 è stato insignito del premio Pulitzer per la fiction.

Di McCarthy colpisce subito lo stile, più unico che particolare, fatto di gestualità più che di introspezione, in cui ciò che passa per la mente dei personaggi non viene mai apertamente dichiarato dall’autore, ma anche di una punteggiatura ridotta alle sole virgole e punti fermi (anche se nell’edizione italiana compaiono i due punti a introduzione del discorso diretto, come da noi è uso), in cui i dialoghi sono quasi nascosti all’interno del testo.

Cavalli selvaggi, il romanzo che andiamo a recensire, è forse il più tipico, per tema, stile e ambientazione, dei romanzi di McCarthy. Scritto nel 1992, assieme a Oltre il confine (1994) e Città della pianura (1998), compone la cosiddetta Trilogia della frontiera.

Che cosa succede

Sul finire degli anni Quaranta, il sedicenne John Grady Cole decide che ne ha abbastanza della vita del paese texano in cui vive. Un giorno, assieme all’amico Rawlins, sellano i cavalli e partono alla volta del Messico, alla ricerca del loro futuro.

Poco prima di valicare il confine, John e Rawlins si imbattono in un ragazzo che sostiene di avere sedici anni, ma che in realtà non può averne più di tredici, che dice di chiamarsi Jimmy Belvins. Nonostante entrambi siano diffidenti nei confronti di Belvins, e Rawlins addirittura apertamente ostile, John Grady Cole decide che il ragazzino può unirsi a loro, e i tre oltrepassano il confine.

Una volta in Messico, a causa di un violento temporale, Belvins si ritrova senza più vestiti, pistola e cavallo, e Johne e Rawlins decidono di aiutarlo a recuperarli. Da quel momento cominciano una serie di vicissitudini che porteranno i ragazzi a separarsi, rincontrarsi, rischiare la pelle e scontrarsi con un mondo duro e selvaggio.

Che cosa ne penso

Cavalli selvaggi, come il resto dei romanzi di Cormac McCarthy è permeato di passione primitiva, sanguigna, quasi sensuale, che non trascende però mai nel melodramma. È la storia di un ragazzo che sceglie, valicando il confine tra Texas e Messico, di vivere spogliato dei lussi, a diretto contatto con un mondo primordiale, dove trova non tanto di che saziare la sua sete di avventura – come sarebbe successo invece in una storia western di stampo più classico – ma, in fin dei conti, sé stesso.

Come con tutti i protagonisti di McCarthy, al lettore non è concesso di entrare all’interno della testa di John Grady Cole. Ciò che pensa va dedotto dalle sue azioni, o dalle sue omissioni. In Messico John Grady Cole realizza sé stesso domando i cavalli nella hacienda di don Héctor, ma trova anche l’amore, carnale e passionale, che lo lega a una giovane donna e che sarà la sua rovina e la sua salvezza.

Cavalli selvaggi è meno brutale di La strada, meno morboso di Figlio di dio, meno crudele di Meridiano di sangue. Tra tutti i romanzi di McCarthy che ho letto, Cavalli selvaggi è senza dubbio il meno violento. Eppure non manca di infierire al lettore scene crudeli e agghiaccianti che, tuttavia, avvengono soprattutto fuori dal palco sul quale si sta svolgendo il dramma. Le scene ambientate all’interno della prigione sono brutali e crudeli quanto è lecito aspettarsi, ma ancora più crudele – e importante – è, ad esempio, il lungo monologo di Dueña Alfonsa, alla fine del terzo atto.

Il coraggio è una forma di costanza e per prima cosa il codardo abbandona sempre sé stesso, dice Dueña Alfonsa nel lungo confronto con John Grady Cole, e si tratta un po’ del succo dell’intero romanzo. Non diversamente da Non è un paese per vecchi, dove era il micidiale Anton Cigurh a proclamare l’impossibilità di ricominciare da zero, perché ognuno porta con sé il bagaglio del proprio passato, Cavalli selvaggi è la storia di un uomo che cerca con determinazione di cambiare il corso del destino.

Nelle storie di McCarthy è spesso così. L’epico scontro, più che due eguali, contrappone l’uomo a qualcosa di più grande e potente di sé: il mondo postapocalittico di La strada, la follia, la brutalità di un mondo che si nutre di violenza. E, non di rado, in questo scontro impari è Davide a soccombere a Golia. L’unica arma dell’uomo, in fin dei conti, è il suo coraggio che, come dice Dueña Alfonsa, deriva dalla sua costanza.

In conclusione

Cavalli selvaggi è un’eccellente introduzione al mondo di Cormac McCarthy, al suo stile e ai suoi temi ricorrenti. Si tratta di una storia dagli orizzonti epici e che pure epica non sembra, un western che non rispetta le convenzioni proprie del genere. È principalmente la storia di un uomo e delle sue passioni.

Non ho potuto non apprezzare l’evoluzione, appena intuita nella prosa di McCarthy, ma evidente a una lettura attenta, del personaggio di John Grady Cole dall’inizio alla fine del suo viaggio, l’amicizia che lo lega a Rawlins e, soprattutto, la sua forza di volontà che è insieme eroica e antieroica.

Cavalli selvaggi è un romanzo di forte impatto visivo, tempi dilatati e vibrante energia. I dialoghi, come sempre per volere dell’autore non ingabbiati da segni grafici, suonano molto bene sia per l’abilità quasi cinematografica con cui sono stati scritti, sia per l’alternarsi di inglese (italiano nel testo) e di spagnolo, che concorrono a rendere genuina l’ambientazione.

Non si tratta di un romanzo per chi ha voglia di leggere un’avventura pulp. Si tratta, più che altro, di un romanzo in cui è la natura umana a fare da protagonista.

Voto finale
[Recensione] Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy


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