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Recensione: “Di carne e di carta”, di Mirya

Creato il 26 gennaio 2015 da Ceenderella @iltempodivivere

Ho sempre avuto difficoltà a parlare di quello che amo. Sono bravissima nell’intavolare discussioni su ciò che non mi piace, mandarle avanti per ore, e probabilmente provocando emicranie insopportabili a chi è costretto a subirle; ma quando si tratta di parlar di quel che mi piace… be’, lì perdo le parole, perché significa parlare anche di me, indirettamente, e se c’è una cosa che odio è proprio quella. Tutto questo per dirvi che la recensione che segue potrebbe risultarvi insensata, un farneticamento incoerente di una che non sa quello di cui parla, ma ci tenevo lo stesso a raccontarvi quel che c’era prima di TrentatréDi carne e di carta, un amore a prima lettura che scuote la carne, sottomette la ragione e impedisce di pensare. Uno di quelli di cui non vi stancherete mai di leggere. Non a caso mi ci perdo da anni.

mirya-di-carne-e-di-carta2Titolo: Di carne e di carta
Autrice: Mirya
Editore: self [lo potete trovare qui]
Anno: 2014
Pagine: 322

Chiara vive di carta. Insegna, studia e legge di tutto. Sui libri e coi libri è cresciuta, i libri sono stati la sua famiglia e i suoi migliori amici e dai libri ha appreso l’amore: l’amore per le pagine ma anche per gli uomini che in quelle pagine vivono. Leonardo entra nella sua vita per seguirla nel Dottorato di ricerca, ed è un uomo concentrato sulla realtà di carne: per lui il distacco dalle parole scritte è vitale e non accetta l’approccio passionale di Chiara. Ma è stato davvero un caso, a portarlo da lei, o c’è una trama anche dietro al loro incontro? Tra un canto di Dante e una canzone degli ABBA si combatte la guerra tra la carne e la carta, una guerra che non ha vincitori né perdenti e che forse non ha nemmeno schieramenti.

Bazzicando, nel corso degli anni su Efp, mi sono imbattuta in due Chiara: una è ormai una delle mie più care amiche, l’altra vorrei tanto che lo fosse. Peccato che sia di carta, quella stessa carta che ama quasi più di se stessa, che, a detta sua, batte sempre i personaggi di carne coi quali ha a che fare, e che, a tempo di record, la fa odiare dall’assistente col quale, suo malgrado, si ritrova a dover lavorare per la sua tesi di Dottorato. Tanto Chiara vive di carta, tanto Leonardo Villani sembra intenzionato a dimostrarle l’irrealtà di questa, a deriderla per il suo trovarci lo stesso mio e – sono sicura – vostro sostegno, a far di tutto per essere fedele al proprio cognome. Voler bene a Chiara è semplicissimo per innumerevoli ragioni e solo la prima tra queste è il suo amore sconfinato per la letteratura che l’ha portata a proseguire gli studi per raggiungere il Dottorato e all’insegnamento, al quale si dedica anima e corpo, tra ironia e tenerezza, in momenti di assoluto amore per la materia e gli insegnamenti che da questa si possono trarre: è la professoressa che tutti dovrebbero avere, un’insegnante che rispetta i propri alunni a tal punto da saltar qualcosa del programma per non ferirne la sensibilità e che con loro sa condividere non solo la scuola ma tutto quello che c’è attorno e fuori che li aspetta. Ed è l’amica, così come Alessandra, che ti fa da spalla nei momenti peggiori ed è felice per te nei tuoi migliori, nonostante abbia tutte le ragioni per abbattersi e piangere; è lì per un abbraccio, un bicchiere di vino e canzoni cantate a squarciagola per dimenticare o festeggiare: mi ripeto, ma è un’amica che chiunque dovrebbe avere, di quelle che sanno gioire dei successi altrui di tutto cuore e ridare il sorriso quando proprio tutto intorno sembra volerlo cancellare. E, ultimo ma non per questo meno importante, è una donna, che sbaglia e si getta a capofitto nelle situazioni in cui buon senso vorrebbe l’uso dei piedi di piombo ma nelle quali il cuore si lancia in avanti senza aspettare, pronto a scattare per qualcuno che non lo sa maneggiare con cura e non fa che scalfirlo, disposta a perdonare e ridare fiducia più e più volte a chi, in fondo, sembra proprio non meritarsele, quelle possibilità che continuamente concede.
Voler bene a Chiara è semplicissimo, dicevo, allo stesso modo in cui avere in antipatia dal primo istante – quel crotalo che ha un così bel cervello mal sfruttato – Leonardo, fino ad arrivare a voler prendere quella bellissima faccia che si ritrova, sbatterla contro la scrivania del suo ufficio e sfigurarlo, perché, amici, tutta quella bellezza non se la merita. È un cerchio che rifiuta di quadrare, a differenza di quelli di carta, fatto di carne che non si lascia spiegare né si piega alla voglia di comprenderla, che, ostinatamente, non vuol prendere in considerazione la possibilità che esistano altri modi di pensare diversi dal suo che possono essere giusti, senza che mettano in crisi totalmente il suo apparato di certezze. Un uomo, in carne, ossa e cocciutaggine, probabilmente quello che più lontano c’è dall’ideale di carta a cui Chiara aspira – pur avendo i piedi ben piantati per terra, non cadete nel facile errore di credere il contrario – ma che irresistibilmente finisce per attrarla e spingerlo verso di lei. In uno scontro. In un incontro.

Perché Villani non era un uomo di carta, uno di quelli di cui poteva innamorarsi nelle prime pagine e a cui poteva dire addio senza strascichi alla fine di un libro; Villani era un uomo di carne e sarebbe stato davvero pericoloso sovrapporre al rapporto con lui la fantasia di quei romanzi in cui i due all’inizio si odiavano e poi finivano per amarsi. Non solo perché non era possibile, ma anche perché in quel caso impossibile avrebbe dovuto confrontarsi con qualcuno di reale, che non avrebbe potuto rimettere in libreria ogni volta che aveva una giornata storia o che aveva solo voglia di strafogarsi di gelato davanti a una serie televisiva o che sapeva di avere l’aspetto di un ornitorinco peloso. Gli uomini di carta erano poco impegnativi: regalavano un sogno d’amore e non pretendevano mai l’amore in cambio, lasciandosi segregare sugli scaffali (…) Chiara avrebbe davvero voluto che Villani fosse un personaggio di carta, perché così sarebbe potuta tornare indietro nel libro per vedere se le fosse sfuggito qualche indizio, o correre alle ultime pagine sperando in un finale chiarificatore. E invece poteva solo affidarsi alle sue impressioni di carne, che al momento erano pure azzerate dalla cefalea.

Potrebbe sembrarvi, la loro, la storia degli opposti che si attraggono, e non posso darvi torto, perché lo scontro tra i protagonisti è palese, su più piani che costantemente si gravitano attorno per giungere, però, alla conclusione che forse non sono poi così dissimili come sembravano all’apparenza e che si può trovare una via di mezzo, tra due modi di amare, di essere, di vedere la vita. Ma sarebbe riduttivo vederla solo in questo modo. Di carne e di carta è sì la collissione, inizialmente, di due idee di approccio alla letteratura opposte – uno troppo distaccato e neutrale, scientifico talvolta ben oltre il limite, l’altro fin troppo di petto e appassionato, che asseconda l’amore totale per il testo – le quali rispecchiano però quelli di Leonardo e Chiara alla vita. Più è di carne lui, più continua a preferire la carta lei: Leonardo algido e distaccato, quasi di ghiaccio, Chiara entusiasta e pronta a mettere tutta se stessa in quel che fa. Sono carne contro carta, l’attaccamento al passato contro lo sguardo verso il futuro, la reticenza contro la fiducia: due ragioni che forse non necessariamente conducono a un torto e che un punto a cui arrivare ce l’hanno proprio sotto al naso anche se non lo vedono; un uomo che la carne ha sempre assecondato e una donna che qualcosa di così carnale mai l’aveva vissuto. Due che potenzialmente non dovrebbero funzionare bene assieme e che invece, proprio in virtù delle loro differenze, un modo di quadrare lo trovano. Un forse da cui tutto costruire. Basta solo che quell’acefalo di Leonardo se ne accorga, perché, si sa, “agli uomini, ad amare, lo insegnano le donne”.

“Perché lo fate, voi donne? Perché fingete che vada tutto bene quando non è così?”
“Non lo so, a dire il vero. Forse perché aspettiamo l’uomo che se ne accorga senza bisogno di dirglielo.”
“E quando lo trovate, quell’uomo, cosa fate?” “In genere”, replicò Chiara, “ci complimentiamo con l’autrice che l’ha inventato.”

Non sono sicura che quel che dico abbia un senso per voi che leggete, se abbia saputo, fin qui, parlarvi di una fanfiction prima, e di un romanzo poi, che, tra un verso di Dante e una strofa degli ABBA, mi ha tenuto compagnia per anni, in cui tanto ho trovato di me come mai mi sarei aspettata, pezzetti sparpagliati nei suoi personaggi ben tratteggiati nei quali è facile riconoscersi e ritrovare quei piccoli difetti o grandi pregi da amare, gli uni e gli altri, perché in amore anche questo si fa. L’ho capito anni fa, nell’incrocio di due binari paralleli che mi intestardivo a non far intersecare, non capendo che le deviazioni servono proprio a questo – a capirsi, accettarsi, ad amarsi –  e che il forse è sì un’incertezza ma anche una porta spalancata al futuro. L’ho capito con e grazie a Chiara, alla sua fiducia nel futuro nonostante una pessima famiglia, a Leonardo e al suo aggrapparsi alle certezze che sempre lo hanno accompagnato per non brancolare nel buio, ad Angelo che vuole imparare ad amare Alessandra come merita, a Paula che è ogni pensiero di Ivano e ai coniugi Pallavicini che dalle ceneri che avrebbero dovuto distruggere tutto han saputo ricostruire qualcosa di più grande. Ma, soprattutto, grazie a quelle pagine di carta virtuali che Mirya ha scritto. L’ho capito sulla carta prima ancora di viverlo sulla carne e questo, amici miei, è quello che solo i grandi romanzi fanno.

Voto: ❤❤❤❤❤

[Una volta mi hanno detto che sono una da cuoricini. Be’, in realtà lo sono sulla carta, perché la carne di esprimersi in affettuosità e abbracci ancora non è capace. Tutto ciò, per chieder perdono alla prof che i cuori proprio non li sopporta e che qui sul blog deve sorbirseli. Chiedo scusa, quindi, giuro che non li lancio dal vivo neanche se mi pagano.]


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