Nella metà degli anni ’70, in inghilterra, i giovani andavano in giro vestiti di grigio e nero cercando la propria identità nelle canzoni di Sex Pistols, David Bowie e Buzzcoks. Durante un concerto, un giovane Ian Curtis conobbe i ragazzi con i quali fondò il gruppo che seppe interpretare al meglio con gr ande sensibilità e raffinatezza l’angoscia di esistere. A Macclesfield, nacque così una delle band più rivoluzionarie della scena musicale post-punk: i Joy Division. Tutto il resto è storia.
Il film (liberamente tratto dal romanzo autobiografico “Touching from a distance” della moglie, Deborah Curtis) segue il percorso di vita del giovane a partire dai giorni passati in camera a truccarsi cercando di emulare i suoi idoli fino alla tragica morte a 23 anni per suicidio. Una parabola fulminante ed emozionante al tempo stesso.
Tutto segue un ordine irregolare a tratti rapido (vedi il fidanzamento, il matrimonio e la nascita della figlia Natalie) e a tratti più lento (vedi gli ultimi mesi di vita). “L’esistenza che importanza ha? Io esisto meglio che posso. Il passato è già parte del mio futuro e il presente è fuori dal mio controllo”. E’ questa forse la frase che riassume in pieno la drammaticità di un’esistenza trascinata come fosse nulla.
Ci viene mostrato un Curtis indolente, apatico e incapace di reagire al successo improvviso e alle aspettative crescenti del gruppo, costretto all’interno di un mondo affettivo che forse non avrebbe voluto ma che non è capace di abbandon are per un altro amore. Tensione, sensi di colpa, continue crisi di epilessia e conseguente depressione conducono alla perdita del controllo su tutta la sua vita. Ecco quindi venir fuori l’idea del suicidio utile a riscattare almeno il controllo sul proprio destino.
Dopo anni dedicati alla fotografia e alla realizzazione di video musicali, il “fotografo del rock” Anton Corbijn con la sua prima opera da regista ci riporta indietro nel tempo in un’epoca di grande fermento. A ben vedere non si tratta del classico film musicale ma qualcosa di più. Ci sono voluti molti anni affinché il regista si convincesse a realizzare questo biopic dal sapore molto personale e intimo e per esprimere al meglio in maniera onesta il ricordo di quel periodo, vissuto in prima persona, il tutto è stato passato in B/N. Una bellissima fotografia rende questo film visivamente eccellente. Le musiche dei Joy Division unite ai silenziosi interni inglesi definiscono l’anima del cantante osannato sul palco e quella del giovane tormentato e frustrato dall’improvviso e inaspettato successo. L’attore inglese Sam Riley con la sua mimica perfetta ci consegna una delle più belle interpretazioni di un personaggio tanto tormentato e distaccato quanto asciutto e meraviglioso.
Sullo schermo Riley è Curtis nudo e crudo in ogni gesto, sguardo o movimento. Grazie a questo film Ian irrompe nuovamente nelle vite di chi è nato con trent’anni di ritardo e rimpiange di non essere vissuto lì al suo fianco per capirlo e proteggerlo.