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Recensione di O’o di John Zorn Tzadik 2009 di Carlo Siega

Creato il 17 ottobre 2011 da Empedocle70
Recensione di O’o di John Zorn Tzadik 2009 di Carlo Siega
Da che mondo è mondo, in estate, si spegne il cervello e ci si concede un meritato -e sacrosanto- riposo da tourne e da “recording sessions”. Sì, ma non in casa Tzadik, dove ci si arrocca in calde sale prova per mantenere fresca la mente, e si lavora in previsione di una vacanza tanto singolare quanto l’indiscussa schizofrenica personalità del “padrone di casa” John Zorn: infatti, si preparano le valige per Waikiki, a caccia di O’o.Cosa aspettarsi dunque? Anche per questa volta l’animazione è gestita dal “gruppo scelto” protagonista di “The Dreamers” (Tzadik, 2008) in cui spiccano nomi già ben noti di Cyro Baptista alle percussioni (incontrato più volte nel gruppo “Masada”) il famigerato batterista dei “Naked City” Joey Baron, gli oramai insostituibili Trevor Dunn (contrabbasso) e Marc Ribot (chitarra). A chiudere la super squadra si aggiungono Kenny Wollesen al vibrafono e Jamie Saft al piano e organo - entrambi di famiglia Tzadik già da un bel pezzo.Quindi: tanto mare e surf(music), ritmi balneari ed esotici, un po’ di “minimal” e molto klezmer confezionano una vacanza “easy listening” veramente da sogno, sin da subito. A dare il primo benvenuto tocca a “Miller’s Crake”, una samba dai sapori decisamente caraibici; esemplari di “Akialoa” e “Po’o’uli” ci vengono mostrati in tutta la loro organicità e continuità linguistica -tipica della danza/ballata- del compositore newyorkese, che sembra proprio non aver dimenticato affatto quel discorso che aveva interrotto con “Rakaasa” proprio in (guarda caso) “The Dreamers”. E’ un pensiero che si trascina lungo i sei minuti d’incredibile dominio ribotiano di “Little Bittern”, sino alla più completa unione strumentale di “Kakawaie”. Nel frattempo l’organico si assottiglia, si divide i percorsi melodici è il caso del “trio” chitarra-vibrafono-tastiere di “Piopio”- dando vita a intensi dialoghi; poi si decide di ricompattare il gruppo, e si torna a dialogare (“Zapata Rail”, nello stesso“Kakawahie” e nel raffinatissimo klezmer “Magdalena”).Onesto lavoro del basso, ma titanico il lavoro di “sustain” del reparto ritmico e ammirevole lo sforzo di Ribot nel trovare suoni non troppo invadenti -anche se la tendenza a “mordere” si sente eccome. L’impressione che il grosso del lavoro sia stato pensato più che sugli strumenti sui singoli musicisti è assolutamente palese (e forse proprio per questo funziona così bene). Di O’o, purtroppo, neanche l’ombra, poiché è specie estinta da circa un secolo, però questa vacanza targata Tzadik piace lo stesso, e molto. Non resta dunque che augurarci l’avvenire di un terzo capitolo, sperando anche di non essere costretti ad attendere un’ulteriore estinzione di qualche altra specie rara.
Carlo Siega
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