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Recensione. FATHER AND SON: dal Giappone un altro film sui figli scambiati

Creato il 02 aprile 2014 da Luigilocatelli

Father and Son è nei cinema da giovedì 3 aprile. Ripubblico la recensione scritta subito dopo la sua presentazione al festival di Cannes 2013 (e scritta prima che ricevesse il premio della giuria). Il titolo originale è Like Father, Like Son (Tale padre, tale figlio).Family portrait 148-01 approved  - © 2013 FUJI TELEVISION NETWORK, INC. - AMUSE INC. - GAGA CORPORATION. All rights reserved.Father and Son (in originale Like Father, Like Son – Soshite chichi ni naru), regia di Kore-Eda Horozaku. Con Fukuhama Masaharu, Ono Machiko, Maki Yoko, Lily Franky. Giappone. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2013.048457È il terzo film in pochi mesi su bambini scambiati nella culla: cosa mai vorrà dire? Stavolta siamo in Giappone, con due famiglie travolte dala rivelazione e alla ricerca disperata di una soluzione. Con la solita domanda sullo sfondo: si è genitori per sangue o per vicinanza di vita con i figli? Film ben girato, ma che resta inesorabilmente prigioniero di molti cliché. Applausone alla fine. Potrebbe piacere a Spielberg, presidente di giuria, da sempre sensibile alle storie di bambini in difficoltà. Voto 6048564Strana (e pure significativa) coincidenza: negli ultimi mesi sono tre film, comprendendo questo giapponese appena visto qui a Cannes nella competizione, a riproporre l’archetipo narrativo e anche mitico e antropologico dei bambini scambiati nella culla. Si è cominciato con Il figlio dell’altra della francese Lorraine Lévy, si è continuato con il pessimo I figli della mezzanotte tratto da Salman Rushide, adesso tocca a questo Like father, like son, Tale padre, tale figlio. Che riprende l’eterna e mille volte vista storia con una minuziosità e un’attenzione al dettaglio assai nipponici, come una preziosa raffigurazione in miniatura di sentimenti familiari e inter-familiari, come un bonsai di un grande mito originario presente in ogni cultura a ogni latitudine. Dunque, abbiamo una famiglia della Tokyo affluente (“casa vostra sembra un hotel” di lamenta la sanguigna madre di lei quando li va a trovare) più che perbene, perbenino. Lui è in carrierona in una immobiliare potente e ammanicata, e padre assente (“nessuno mi può sostituire al lavoro”, dice), lei è una donna dolce e intelligente cui tocca far fronte a un marito tanto impegnato quanto intransigente (l’elasticità non è la migliore attitudine del nostro). Al loro bimbetto Keita danno la migliore isruzione possibile, pianoforte compreso. Finché per chissà quale test medico emerge che Keita non è il loro figlio, e si fa presto a scoprire dello scambio in culla all’ospedale. Al processo che seguirà, l’infermiera colpevole ammetterà di averlo fatto apposta, riecheggiando quella dei Figli della mezzanotte. Ci vuole un attimo anche a risalire all’altra famiglia, e all’altro bambino. Ovviamente questi altri sono dei proletari-piccoloborghesi un filo cafoni, però allegri, vitali, con tre bambini compreso il figlio che non è geneticamente loro. Dunque la contrapposizione tra le più classiche è: borghesi versus proletari, rigidità e anaffettività da ricchi versus estroversione e calore affettivo da poveri. Non proprio una novità, diciamolo, anzi siamo nel pieno dei più vieti cliché. La figura intorno a cui ruota la narrazione è il padre borghese, con le sue insoddisfazioni verso quel figlio così poco competitivo, così poco attrezzato per le lotte dure della vita, un non-vincente nato. Figlio in cui fa fatica a riflettersi, e quando scoprirà che non è suo riuscirà a darsi una spiegazione di quel solco che ha sempre sentito tra loro due. Ma basterà scambiarseli, i bambini, come faranno le due famiglie dopo un periodo diciamo così di prova, per risolvere la situazione? Certo che no. Le cose si rivelano un bel po’ più complicate. Si va avanti per due ore e passa ad analizzare ogni minimo fremito e tremito nell’una e nell’altra famiglia, fino a un finale-non finale che lscia aperte molte domande e non dà risposte certe. Soprattutto lascia aperto l’eterno dilemma: si è figli (e padri e madri) per sangue o per consuetudine e vicinanza di vita? Il film sviscera la faccenda con civiltà, attenzione, rispetto, un grande pudore, ma anche con una certa pedanteria e abbondanti e parecchio usurati psicologismi: senza riuscire a liberarsi da cliché vecchi e nuovi, compresi quelli politicamente corretti. Alla fin fine Like Father, Like Son pencola verso quella che ormai è una convinzione di massa in Occidente e anche in Giappone evidentemente, secondo la quale i figli tuoi sono quelli che ti sei cresciuto, non importa se portano il tuo dna o no. Troppo lungo, troppo minuzioso, il film è girato assai bene e con eleganza nipponica. Lunghissimo applauso, soprattutto da parte del pubblico femminile. Piacerà di sicuro, qualche distributore italiano se lo dovrebbe comprare. Non escluderei neanche un premio qui a Cannes, anche se si è visto di molto meglio. Il presidente di giuria Steven Spielberg, si sa, è da sempre sensibile alle storie di bambini abbandonati, mal amati, cresciuti in condizioni difficili se non avverse, da E.T. a L’impero del sole, e questo film gli potrebbe essere piaciuto molto.


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