“Muffa” un titolo sibillino per un film che infonde aspettative, complice una gran bella cartella stampa, una featured image intrigante e il premio ottenuto a Venezia 2012 come migliore opera prima. E, in effetti, scorrendo il cast, la curiosità aumenta: tra i pochi attori ben due erano i protagonisti di “Once upon a time in Anatolia”, pellicola che in poco meno di tre ore è riuscita a unire diversi generi passando dal poliziesco, al thriller sino al drammatico on the road (per lo più in notturno) con il magnifico paesaggio incontaminato dell’Anatolia sempre sullo sfondo.
Attraversiamo ancora l’Anatolia, anche se poco importa; la storia si focalizza sul dramma di un singolo uomo la cui vita è stata devastata prima dall’arresto del giovane figlio e poi dalla morte della moglie. Il silente protagonista conduce una vita solitaria e umile ed è oramai intrappolato in una noiosissima routine: Basri, questo il suo nome, è addetto al controllo dei binari della ferrovia e in pochi fotogrammi percepiamo quanto egli tiri a campare per rispetto e (oramai quasi assopita) speranza di riunirsi un giorno a quel figlio di cui ha perso ogni traccia.
Una protesta silente, la forza tipica del genitore, una tragedia diffusa in ogni continente che non fa quasi più notizia e molto di più, ci viene presentato con ben poche parole e molte inquadrature trascinandoci in un vero e proprio strazio. Il dolore di Basri è riservato e l’uomo si chiude sempre più in un ermetico silenzio, peccato che il giovane regista abbia deciso di farci assaggiare un po’ dell’angoscia del protagonista confezionando una pellicola corredata da rari scambi verbali e quando ciò accade, i dialoghi sono talmente sterili da lasciarci perennemente sospesi, col risultato che la (in)sofferenza di alcuni in platea diviene ben presto percepibile.
Come se non bastasse, all’eterno silenzio dobbiamo aggiungere delle inquadrature ben poco accattivanti – per lo più girate con camera fissa, totale assenza di zoom o di movimento di macchina -, tanti paesaggi anonimi e privi di attrattiva, una ferrovia che pare in disuso e comprimari interpretati da attori che avrebbero potuto regalarci una gran buona performance se avessero avuto un regista con polso dietro la macchina da presa.
Ora, comprendo che talvolta per coinvolgere il pubblico siano necessari piccoli stratagemmi, ma non credo che l’assenza di regia e di una colonna sonora siano il modo migliore per riuscire a condividere la voragine interiore provata dai genitori dei molti desaparecidos. La sensazione è stata piuttosto di capacità acerbe e di una mano troppo abituata a telenovelas o film per la tv. Quindi, nonostante l’intellighenzia ritenga si tratti di poesia, questa pellicola è stata per la sottoscritta una dura prova di sopportazione.
Opera inadatta al grande pubblico in cerca di evasione da weekend, per contro è destinata ai curiosi e ai cultori di ciò che va fuori dagli schemi. “Muffa” non è un film muto, né un documentario e tantomeno una fiction televisiva, siete avvisati!