Recensione film The Tree of Life

Creato il 14 giugno 2011 da Masedomani @ma_se_domani

Dopo sei anni Terrence Malick torna alla regia e vince Cannes! Un capolavoro! Pura poesia!

Se dovessi incontrare il presidente della giuria,il Signor Robert De Niro, gli suggerirei di iniziare a correre, perché qualora lo raggiungessi sarebbero dolori. Ho sofferto come non capitava da anni: due ore abbondanti interminabili, al punto da santificare la RIM! Per la prima volta ho letteralmente chattato mentre ero in sala e quando ho capito che non ce l’avrei fatta, neppure adottando questo stratagemma vergognoso, ho mollato il colpo. Ebbene si, non so come finisca The Tree of Life, mi manca l’ultimo quarto d’ora, ma alla rèunion sulla spiaggia di protagonisti, comparse e non so chi altro, non ho saputo più reggere.

Tra un sussurro ed un sermone, tanta ottima musica che accompagna immagini di una perfezione maniacale. L’alternanza è tra la creazione della vita e la (pseudo) narrazione dell’infanzia di un ragazzino qualunque cresciuto nell’America borghese anni ’50 e ’60. Se quest’ultima risulta lenta, sprovvista di una trama e pressoché priva di dialoghi, ma per lo meno ci offre l’espressività e la recitazione (anche delle rughe) di Brad Pitt e Jessica Chastain (senza dimenticare lo sguardo del piccolo Jack – Hunter McCracken), le parti dedicate alla genesi provocano insofferenza e malumore nel pubblico. Dopo infatti una intro in cui “appare” Sean Penn, si scivola rapidamente nella bocca del più bel vulcano in eruzione che si ricordi, si vaga nei meandri di spettacolari canyon, si assiste ad una mitosi degna del miglior microscopio e subito si vola tra gli splendidi anelli di Saturno prima i tornare sulla Terra in compagnia di verosimilissimi dinosauri (  ) e meduse tanto belle quanto dolorose.

43 (quarantatre) interminabili minuti che disorientano e fanno perdere ogni speranza a chi è entrato. Molte le defezioni volontarie e soprattutto oggi infine comprendo come possa essere accaduto che, per oltre una settimana, a spettatori e proiezionisti (!) di un cinema non sia sorto il dubbio che le pizze fossero state invertite. La prima ora non fa la differenza, o meglio, non da un punto di vista cronologico, bensì solo psicologico: mina irrimediabilmente l’equilibrio mentale delle persone in sala!

Che questo sia l’anello mancante tra il (miglior) documentario ed il (peggior) film? Oppure è solo l’esternazione di un problema molto intimo del regista camuffato da analisi delle proprie (e non solo) origini? Qual’era il messaggio per il pubblico? Quale reazione voleva suscitare oltre al sussulto per le voci fuori campo che si interrogano citando la bibbia o, in alternativa, dispensano suggerimenti di vita sempre sussurrando? Può una pellicola che si trascina essere un inno alla vita?

Dove dovrebbe emergere il genio se non nell’attenzione a fotografia ed al più piccolo dettaglio? Con una predilezione infatti per i colori caldi, la terra e gli esterni quando nel passato, che si alterna ad un presente fatto di interni, tonalità di grigio e vetro, nonostante inquadrature mai violente, mi ha fatto comunque soffrire. La troppa camera a mano ha provocato il mio primo mal d’auto cinematografico! In quel momento, letteralmente disgustata, mi sono resa conto che se questo è il così detto cinema d’eccellenza, allora che siano X-Men tutta la vita. Con molte meno pretese, i concetti di appartenenza, timore per il diverso, fiducia e amore per sè stessi, aiuto reciproco e via discorrendo affiorano efficacemente, tra un sorriso e l’altro, senza alcuna pretesa di essere pellicola impegnata e lasciando un ricordo leggero.


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