Titolo: Giuda
Autore: Guido Mazzolini
Editore: La Torre
Anno: 2012
ISBN: 9788895347158
Numero pagine: 110
Prezzo: € 10,00
Genere: narrativa
Voto:
Contenuto: La storia raccontata da questo romanzo breve la conosciamo già. Si tratta degli episodi salienti del Nuovo Testamento, così come emergono e vengono rivisitati dalla coscienza di Giuda Iscariota. A cambiare è la prospettiva, ma non il significato degli eventi in sé. È opportuno precisare che l’opera non richiama in nulla il vangelo gnostico di Giuda.
Recensione: A fine lettura non mancano le perplessità. Nulla da dire sul linguaggio, sulla forma. Vi sono momenti di pura poesia, le parole sono scelte con cura, come le immagini. Il profilo di Giuda emerge con chiarezza, come i colori della sua anima. Appare subito un personaggio di spicco, meno passivo e distante di altri. Si avvicina maggiormente al Nazareno, tocca più di altri una realtà che lo lascia confuso, tormentato, e inevitabilmente lo spinge verso la direzione che sappiamo. Il suo tradimento ha una natura diversa rispetto al rinnegamento di Pietro. Giuda ha agito in forza di un atto di volontà libero e determinato, votandosi a una scommessa in cui ha posto sul piatto l’umanità tutta intera. Pietro, invero, ha preso le distanze dal Messia per codardia.
Comprendiamo cosa prova l’apostolo, cogliamo il senso di una promessa fraintesa e destinata a essere tradita. Perché il primo a sentirsi tradito è proprio Giuda. Percepiamo e vediamo, chiare e nitide, le lacrime di sangue amaro che come macigni gli pesano negli occhi. È ben lungi dal rappresentare soltanto se stesso. Quanti si sono accodati al Maestro in attesa di una rivoluzione che togliesse di torno l’invasore? Giuda esprime le aspettative di un intero popolo, non vede l’ora di scalzare il tiranno di turno. Ve ne sono stati altri, e altri ve ne saranno. In quel frangente è il giogo romano che imbriglia e soffoca, tormenta e imprigiona:
Egli [Gesù] era ancora con noi e chi poteva esserci contro? Era un Dio potente e implacabile che non conosceva la pietà e noi le sue piccole mani armate di coltelli e affilato rancore.
La vicinanza con il Nazareno spegne le fin troppo facili illusioni:
La verità che mostravi possedeva il gusto amaro della resa.
L’amarezza è anche quella di capire a quale verità si è asservito nel divenire zelota e nel ricevere la sica, simbolo della sua appartenenza al destino.
L’immagine che Giuda ha di Dio, e di conseguenza del Figlio, appartiene ancora, e non può essere altrimenti, al retaggio vetero-testamentario. Non è stata ancora completamente voltata la pagina, il Nuovo Testamento che conosciamo sarà definito qualche secolo dopo. Non c’è da stupirsi che il messaggio inaudito del Messia, più che smuovere le coscienze, sia destinato a produrre scandalo.
Dubbio su dubbio, domanda su domanda, fino all’ultimo Giuda alimenta il proprio fraintendimento, ritenendo che a fraintendere sia l’altro, e che l’altro debba essere risvegliato dal proprio torpore. O semplicemente non ha ancora capito – cosa che ci domandiamo noi tutti, ancora, oltre due mila anni dopo – chi sia il Figlio dell’Uomo e quale sia il senso di un messaggio rimasto solo sulla carta.
A destrutturare il romanzo (ecco la parola giusta) è una contraddizione di fondo insanabile. Si assiste nella coscienza di Giuda a un miscuglio tra ciò che è la cultura del suo tempo e quella di là da venire, tanto da creare disorientamento nel lettore.
Questo risulta evidente nell’eccessiva attenzione che dedica alla figura di Maria. Manca quasi del tutto quella di Giuseppe, citato qua e là. Giuda attinge a una mentalità e a un linguaggio neotestamentario totalmente fuori dal proprio orizzonte. Inoltre non convince il rapporto d’intesa di Gesù con sua madre, quando gli stessi vangeli mostrano più distacco tra i due. Qui l’autore subisce le suggestioni di una iconografia piuttosto tarda, tipica della pittura rinascimentale. Ci vuol poco ad attribuire a Maria un ruolo che quei tempi non consentivano, e lo stesso apostolo sembra non aver nulla da obiettare:
Quel giorno tua madre mi venne incontro e aveva sul volto il sorriso più bello. Mi parlò dolcemente e ancora sento risuonare la sua voce nelle mie orecchie. «Segui mio figlio, Giuda di Keriot. Seguilo e abbandona la tua strada sporca di sangue e delusione. Segui mio figlio. Troverai la pace e vivrai nella luce. Segui mio figlio e sarai liberato.»
L’episodio mal si coordina con il punto in cui Giuda, uomo del suo tempo, parla della donna come un utile accessorio destinato a mettere al mondo i figli, ad accudirli e a rimanere in silenzio.
E non ho ancora parlato del ritratto insipido di un Gesù che, bambino, si prende cura di un passero grigio. Non andrà meglio dopo: il Nazareno rassomiglia a un santino, è privo di profondità, non diversamente da Maria. Non credo che ciò sia avvenuto per trascuratezza. La figura di Caifa è molto ben tratteggiata, come quella del soldato romano che assassina una donna inerme, o la stessa donna che soccombe al supplizio.
In conclusione il romanzo è in tutto e per tutto politically correct, ma appare sbilenco laddove mette in discussione e approfondisce la figura di Giuda, ma lascia le altre nelle maglie di un quadro astratto. L’autore si è fatto vincere da una sorta di timore reverenziale, ha inteso trascurare il problema (notevolissimo) che i membri della sacra famiglia ponevano sul piatto. Ha preferito abbozzarli appena, assecondando l’immaginario comune. Ciò si è rivolto contro lo stesso Giuda, incagliato nella rete. C’è da domandarsi da che parte stia l’umanità che egli rappresenta, se si riconosca più in quest’uomo o in una teologia a sé stante e autoreferenziale.