Titolo: Il giardino di cemento
Autore: Ian McEwan
Editore: Einaudi
Traduttore: Stefania Bertola
ISBN: 9788806135591
Num. Pagine: 159
Prezzo: 9,50€
Voto:
Trama:
“Non ho mai ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avergli dato una mano a morire”. Chi racconta è Jack, un ragazzino sporco, foruncoloso, tenuto in disparte dalla famiglia; suo padre è un uomo fragile, irascibile e ossessivo che un giorno decide di costruirsi un giardino roccioso: si mette al lavoro, ma muore, di fronte all’indifferenza di Jack che non chiede aiuto. Julie, sorella maggiore, prime magliette scollate, primi amori tenuti segreti. Sue, due anni meno di Jack, sgraziata, sempre pronta a ritessere i difficili rapporti di famiglia. Tom, un bambinetto vivace, tutto preso dai suoi giochi e dai terrori scolastici. Infine la madre, slavata, sempre affaccendata in cucina oppure sprofondata nel letto di malata. Un balletto di “enfants terribles” che fanno pensare a Cocteau, a Vitrac, eppure sono anche banali, figli di una cattività familiare segnata da un esasperato sadismo.
Recensione:
Un libro che viene considerato un grande classico della letteratura contemporanea, e guarda caso leggendolo scopro che mi ripugna assai. Va’ che caso.
La storia si presenta fin dalle prime pagine un concentrato di irreale, di macabro e conturbante, di nebuloso allarmante, come l’ingranaggio di un orologio che produce un rumore impercettibile ma che fa stridere comunque i timpani.
La famiglia protagonista già di per sé fa comprendere dalle prime righe che lo svolgimento sarà improntato su un livello che va ben oltre la logica e la razionalità. I personaggi sono entità a sé stanti, sono stravaganti in un senso neutro – se non talvolta negativo, sono contraddittori e piuttosto apatici nei confronti altrui, manifestano i loro sentimenti distorti in maniere altrettanto distorte, e paiono totalmente incapaci di adoperare un minimo di giudizio.
Non sono pazzi, non è manifestazione di alcuna malattia mentale tutta questa bizzarria, ma è come se fossero esseri umani allo stato incompleto, come se nei loro meccanismi mancasse quel pizzico di buonsenso e umanità che altrimenti li farebbe agire con uno scopo, e non soltanto preda di curiose tendenze morbosamente anomale.
Il padre è il primo ad andarsene – dopo una generosa e non lusinghiera descrizione che ci fa il figlio Jack, il quale a sua volta non è granché a livello di personalità – e la madre lo seguirà dopo una manifesta indolenza che alla fine ha avuto la meglio.
Nella casa isolata, dove il giardino si è trasformato in una distesa di cemento, sono rimasti i quattro figli, che fanno di tutto per non essere divisi, e che quindi sceglieranno un modo molto originale – nonché grottesco – per mantenere un’apparenza di normalità.
Julie è la sorella maggiore, che decide di assumersi ogni responsabilità; poi c’è Jack, il nostro Cicerone che attraverso il suo umore e i suoi occhi ci mostrerà le sfumature di una convivenza al limite dell’onirico; c’è Sue, l’unico personaggio che viene descritto superficialmente, di cui non riusciamo a farci una particolare idea; e infine il piccolo Tom, uno stravagante ometto che ha avuto tutto il tempo di assimilare l’atteggiamento neorealista che lo circondava e con la nuova condizione riuscirà a metterlo in pratica.
Dopo aver finito di leggere questo testo di neanche duecento pagine, ho cominciato a chiedermi cosa mi fossi persa. In tanti ne decantavano la bellezza, il significato, la genialità, mentre l’unica cosa che io ho trovato tra queste pagine è stato una sorta di incubo del subconscio, di quelli che quando ci si sveglia lasciano uno strascico di shock, di disgusto, di inquietudine perché parlano di cose sbagliate, irragionevoli, disturbanti, e proprio perché ce ne rendiamo contro ci sembrano intollerabili.
Era questo che voleva trasmettere Ian McEwan? La sensazione di caduta libera, di inafferrabile, di inaccettabile che diventa realtà?
Sono andata a sfogliare diverse recensioni – non solo in italiano – e per quanto chi le ha scritte ha cercato di fare una qualche analisi del testo, ho notato che nessuno è riuscito a trovare una vera e propria chiave di lettura. Meno male, allora non è solo un mio problema.
C’è chi l’ha amato incondizionatamente e chi lo ha trovato raccapricciante, c’è chi l’ha trovato mortalmente noioso chi orridamente divertente. Io l’ho trovato inutile. Inutile perché non trasmette nulla, se non appunto quel vago senso di apprensione che ho citato prima, ma trattandosi di un romanzo il suo effetto è molto diverso da quello di un sogno, e svanisce nell’arco di poche ore – se non sono minuti.
I quattro ragazzi appaiono come degli animali privi dell’istinto di sopravvivenza, si accontentano di vivere nell’accidia più assoluta trasformando la loro dimora in un universo dove il tempo non scorre, dove Jack e Tom si sentono liberi di dare sfogo a caratteri estremamente introspettivi ed egoistici, agendo senza badare troppo alla logica.
L’autore voleva forse disegnare un quadretto dove l’ipotesi presa in considerazione era la “cattività” delle menti senza più i genitori a far loro da guida, e che quindi si levano le briglie dei condizionamenti esterni? Spero di no, perché i presupposti non esisterebbero siccome i quattro hanno già i loro anni di esperienza sulla Terra vissuti in mezzo a una comunità cittadina, ed è impossibile quindi parlare di “cattività”.
Si voleva forse tirare in ballo l’involuzione personale a dispetto degli schemi della società? Improbabile, visto che McEwan non si focalizza quasi mai su questo punto, indi per cui viene da pensare che non l’abbia nemmeno preso in considerazione.
Com’è o come non è, sta di fatto che per me Il giardino di cemento si poteva fare a meno di scrivere. Un’opera palesemente fine a se stessa – contando poi che è una prima opera… – più un esercizio di stile che la volontà di comunicare qualcosa, una trama svolta non abbastanza bene per farla rientrare nel nonsense e troppo labile per essere presa sul serio. Non mi sforzo neanche di dire che i personaggi sono interessanti, perché non lo sono. Julie è un’incoerente che di tanto in tanto si lascia andare all’inconsulto senza motivo, Sue come ho già detto non è in primo piano pertanto ci appare solo una ragazzina introversa anche se più incline degli altri alla normalità, Tom è un pazzerello che in tutta onestà coi suoi esperimenti antropologici mi ha dato l’impressione di essere il più furbo, mentre Jack è sgradevole, ottuso e non si fa fatica a prenderlo in antipatia.
Ed è lui la nostra voce narrante, eh.
Se volete saperlo, le tre stelle sono per la forma. Lo stile è scorrevole, interessante, molto godibile, e ammetto che le idee di questa storia in partenza erano buone… peccato che siano state sviluppate in maniera tanto pacchiana.