Autore: Hermann Hesse
Titolo: Il lupo della steppa
Editore: Mondadori
Anno: 1999
ISBN: 9788804460350
Pagine: 304
Prezzo: € 9,50
Voto:
Trama: (da Wikipedia) Il protagonista Harry Haller è un intellettuale sulla cinquantina che, in un manoscritto abbandonato prima della sua misteriosa scomparsa, descrive il disagio della sua “duplice” natura: l’umanità, cioè l’amore per l’arte e il divino, la nobiltà d’animo e di pensiero, e la bestialità (il “lupo”), alla ricerca dei piaceri selvaggi.
Questo suo carattere, ombroso e irrequieto gli rende difficile se non impossibile socializzare e lo porta a odiare e disprezzare la vanità e la superficialità del mondo borghese. L’isolamento sociale e l’incapacità di godersi la vita lo avvicinano sempre più al suicidio, ma proprio nel momento più drammatico conosce, in una trattoria dei sobborghi, Erminia, donna seducente che lo conduce, poco a poco, a una conversione ai piaceri della vita moderna facendogli recuperare il tempo perduto. Il finale del racconto, in un “teatro magico” vede Haller, ormai convinto di aver recuperato la capacità di amare, che uccide con una pugnalata al cuore la persona amata. Esegue così l’ultimo desiderio della sua amata Erminia ma, nel “teatro magico”, il delitto di cui Haller si è macchiato gli costa la condanna alla vita eterna, con lo scherno dei grandi del passato che sedendogli accanto lo invitano a comprendere una volta per tutte l’umorismo della vita per imparare a ridere senza dar peso eccessivo ai sentimenti.
Nel romanzo si sviluppa uno dei temi preferiti di Hesse, cioè la ricerca dell’interiorità attraverso la contemplazione dei tanti, spesso contraddittori aspetti dell’io, rappresentata sia dalla preoccupazione di Haller per l’incoerenza del proprio animo, sia dalla metafora finale del “teatrino magico“.
Non condivido al cento per cento questa ricostruzione: il romanzo racconta la storia di Harry Haller, un uomo che seguendo il suo istinto e il richiamo del lupo della steppa – che è in lui – tenta di sfuggire al mondo borghese e alla sua storia, cui tuttavia appartiene ed è lungi dall’abbandonare. Preso tra due fuochi, vive un dramma esistenziale apparentemente senza soluzione. Più si allontana dai suoi simili e da un certo modello esistenziale, maggiore è la forza dell’elastico al quale è agganciato: più in là non può avanzare, perché viene ricacciato indietro. Basta solo un richiamo più forte. Non quello del lupo che conosce, ma di un altro più bello.
Recensione:
A un certo punto del romanzo si legge qualcosa di assai rilevante: la malattia di Harry Haller, se di malattia si può trattare, “non era dovuta a difetti della sua natura ma dalla ricchezza di capacità e di energie non armonizzate tra loro”. Qui Hesse dice tutto. A causa di ciò Harry ritiene che nel suo petto abitino due anime. Sono distinte, non in equilibrio tra loro, non si sostengono ma rappresentano ciascuna il rispettivo mortale nemico. Nonostante questo, pur con fatica e dolore, porta con sé un’unicità che è il suo stendardo, la sua insegna, l’orgoglio di non essersi mai venduto per denaro o essersi arreso al benessere, di aver rifiutato un impiego, di osservare un orario, di obbedire agli altri. E’ un uomo libero, e per questo motivo prende le distanze dai suoi simili, nella misura in cui costoro si distanziano da lui. Basta questo per farne un lupo?
A lettura ultimata sembra che la scissione della personalità di Harry Haller sia prodotta dalla pressione continua tra lui e il mondo, tra l’uomo che desidera far parte della comunità e godere dei suoi benefici e il lupo che vuole vivere allo stato brado: “Ciò che da principio fu il suo sogno di felicità divenne in seguito il suo amaro destino”.
Insomma: Harry è forse salvo perché preferisce la libertà e “l’intensità della vita” rinunciando in contraccambio alla sicurezza, alla tranquillità e alle comodità del modello borghese, ma realmente disperato e sempre più incapace di essere immune al suo richiamo, alle sue lusinghe.
Quasi senza esitare per esempio accetta l’invito a pranzo di un vecchio professore ed ecco di nuovo “le distrazioni, i balsami, i narcotici contro la disperazione”. Si insinua sottobanco la voce dissacrante e irrispettosa del lupo che riporta le distanze, “il distacco completo dal mondo borghese, morale, erudito”.
La vittoria del lupo non dispiace a Harry che sospira quasi di sollievo, avvinto dal senso di libertà e di fuga, dal piacere di andarsene sbattendo la porta. E’ però una vittoria che sottende al fallimento dell’uomo che continua a tendere e a desiderare la stessa vita alla quale si sottrae. A tratti sposa la filosofia del lupo, non è facile da governare perché fiera e volitiva.
Se al lupo manca tutto e di nulla difetta, l’uomo borghese al contrario è colmo di ogni cosa, eppure è debole, sempre più fragile e incapace di trovare forze sufficienti per sopravvivere:
“per le sue qualità non potrebbe avere nel mondo altra parte che quella d’un gregge d’agnelli in mezzo ai lupi in libertà”.
Harry si definisce “lupo della steppa”, ma gli pesa molto questo lupo. Gli uomini non sopportano la libertà, fanno cambio volentieri con la sicurezza di un rifugio.
Sennonché…
Sennonché sdoppiare l’Io è un’ingenuità. L’Io è “un piccolo cielo stellato, un caos di forme”.
L’ingenuità di Harry Haller è poi quella di Faust:
“Due anime, ahimè, albergano nel mio petto…”
Due anime non sono troppe, piuttosto troppo poche, perché molti sono i ruoli che ciascuno è chiamato a impersonare, imposti dalle convenzioni sociali alle quali ci si sottomette. Harry Haller si illude di dirigersi verso la giusta direzione, di riuscire a divenire un uomo che nulla abbia in comune con altri mille. Ma non sono forse convenzionali le stesse due anime che Harry ritiene si muovano nel suo petto, (divina e demoniaca che siano)?
E’ quanto tenta di fargli comprendere la Dissertazione sul lupo della steppa che Harry si trova tra le mani. Forse si tratta di una rete nella quale è bene non cadere, c’è qualcuno che vuole addomesticare il lupo o, peggio, travestirlo, addolcirlo, rimbambirlo a suon di cerimonie e parole. Perché lui è “il lupo della steppa”, è lui che stanno tentando di accalappiare e imbrigliare.
Ci cascherà Harry?
Come evitare il dubbio di essere in torto, che altri abbiano ragione, cioè coloro che tutto sommato si sono costruiti una vita più sopportabile e paradossalmente più reale della sua?
Sogna l’amato Goethe, colui che più di altri “ha visto e sentito esattamente quanto sia problematica e disperata la vita umana”, e tuttavia è stato in grado di difendersene e di raggiungere l’Olimpo degli Immortali, offrendosi ora nella sua imponente solennità.
Ha vissuto un tenue compromesso: grande nell’opera d’arte, gli è riuscito di raggiungere la massima vetta dello spirito, pur radicandosi nella vita sociale, dove predica “la fede nell’ottimismo e il senso illusorio di tutti gli sforzi intellettuali”. C’era un altro modo per fare da collante e tenere insieme una qualsiasi società di uomini senza mettere da parte la disperazione, tirando piuttosto a campare?
“Perché, Harry, non fai altrettanto”, sembra domandargli Goethe, cui farà eco, nel finale, la risata bambinesca di un altro immortale: Mozart.
La condizione di Harry Haller che si emargina dal consorzio umano non è dissimile da quella di tutti gli uomini che, pur riuniti in comunità, vivono la medesima chiusura ed emarginazione. In società si è estranei e reciprocamente diffidenti (ciascun uomo è un lupo per l’uomo, homo homini lupus). Ci si difende creando mondi artefatti in cui, più che comunicare, si recitano formule. A Harry Haller il vecchio professore rimprovera, durante il pranzo, di non attenersi a queste ultime e di esprimersi in maniera troppo cruda, senza con ciò contestare il merito di un suo giudizio.
Che ne sarà di Harry? Si salverà, all’ultimo momento, come Faust con Margherita?
Non mancano le premesse: Harry sembra aver incontrato nelle vesti di Erminia un altro se stesso, il lupo che tanto lo tormentava…
(“Vedi, dunque, questa qui è una coscia di anitra ed è una festa staccare dall’osso questa bella carne chiara, e facendo così bisogna avere nel cuore lo stesso appetito…”)
…e che, ora, gli domanda la stessa obbedienza e fiducia che fino a questo momento è stato lungi dal concedere. Sembra una presenza benefica, la via di salvezza che si spalanca prima di precipitare nel baratro, a un passo dalla propria disperazione. E’ l’imprevisto dell’ultimo istante possibile che sa di magico e che si manifesta nella metamorfosi, nella trasfigurazione del lupo:
”Io ho infranto la tua solitudine, ti ho raccolto e risvegliato sulla soglia dell’inferno… Tu hai bisogno di me in questo momento perché sei disperato e ti occorre una spinta che ti butti nell’acqua, ti richiami alla vita.”
Lo affascina molto questo lupo, la sua voracità di vita, la capacità che a lui manca di “vivere l’attimo sfuggevole”, di abbandonarsi senza calcolo all’istante. Non è in fondo la continuazione del sogno di Goethe? E’ la personificazione di quella parte di sé che avrebbe dovuto conoscere. Erminia sa tutto di lui, ha solo qualche difficoltà a comprendere la sua vita spirituale, salvo non sia anche questa un pregiudizio, una convenzione tra le tante, un modo disperato di ovviare alla fatalità del destino:
“Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno può farlo”.
Erminia vuole insegnargli ciò che aveva capito Goethe, uomo tra gli uomini: rimanere libero dentro qualunque abito, senza sentire il bisogno di indossarne uno piuttosto che un altro, ad esempio quello del lupo della steppa. L’umanità, tutta intera, non avrebbe abbandonato la sua corsa, sarebbe andata comunque incontro alla prossima guerra preparata con cura, passo dopo passo, tassello per tassello. (Non si dimentichi che il romanzo è del 1927).
Passo dopo passo e tassello per tassello sembra che la personalità di Harry si stia ricomponendo. L’uomo si è ricongiunto al lupo, le due anime si stanno contemplando.
Ma la personalità è un’illusione, nel petto due anime sono troppo poche. Non si diceva questo nella “Dissertazione”?
L’ultima parte del romanzo può lasciare esterrefatti, perché racconta non la salvezza ma la caduta, la sconfitta della pia illusione che, seguendo il lupo della steppa, si possa sfuggire al destino, guadagnare l’eccezione. Entrato nel teatro magico (destinato solo ai pazzi come lui), ritrova non se stesso e nemmeno due anime ma mille. La personalità si sgretola, si frantuma, nel tentativo di arginare la contraddizione, la stessa di Goethe e di Mozart.
Goethe e Mozart erano giunti nello spirito e nell’arte a livelli mai più toccati, indicando una via e un percorso che non sono mai stati alla portata di nessun essere umano. Il fatto che essi stessi non ne fossero all’altezza li ha resi cari, amabili e ben accetti.
Da Mozart, da Goethe e da Erminia, il lupo della steppa deve imparare a ridere. A questo scopo viene spinto a tornare nell’alveo di tutti, cioè dentro i binari di un destino comune, brutto o bello che sia. Non c’è via di scampo, tanto vale ridere, se non sorridere, addomesticare il lupo o farsi addomesticare da lui.