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[Recensione] Il nome della rosa di Umberto Eco

Creato il 23 settembre 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Il nome della rosaTitolo: Il nome della rosa
Autore: Umberto Eco
Editore: Bompiani
Anno: 2012 [I ediz. 1980]
ISBN: 9788845268175
Num. Pagine: 619
Prezzo: 16,00€ (in brossura)
Voto: [Recensione] Il nome della rosa di Umberto Eco

Trama (estratta daWikipedia): 

È la fine di novembre del 1327. Guglielmo da Baskerville, un frate inglese, e Adso da Melk, suo allievo, si recano in un monastero benedettino di regola cluniacense sperduto sui monti dell’Italia settentrionale. Questo monastero sarà sede di un delicato convegno (…) Guglielmo è stato incaricato dall’imperatore di partecipare al congresso quale sostenitore delle tesi pauperistiche. L’abate, preoccupato che l’inspiegabile morte del giovane confratello Adelmo durante una bufera di neve possa far saltare i lavori del Il Nome della Rosa (Blu-Ray Disc)convegno e far ricadere la colpa su di lui, confida nelle capacità inquisitorie di Guglielmo affinché faccia luce sul tragico omicidio, cui i monaci – tra l’altro – attribuiscono misteriose cause soprannaturali. Nel monastero circolano infatti numerose credenze circa la venuta dell’Anticristo.
Nonostante la quasi totale libertà di movimento concessa all’ex inquisitore, altre morti violente si susseguono: quella di Venanzio, giovane monaco traduttore dal greco e amico di Adelmo, e quella di Berengario, aiutante bibliotecario alle cui invereconde profferte aveva ceduto il giovane Adelmo. Anche altri monaci troveranno la morte nell’abbazia, mentre i delegati del papa disputano con i francescani delegati dall’imperatore sul tema della povertà della Chiesa cattolica. Guglielmo scopre che le morti sono riconnesse a un manoscritto greco custodito gelosamente nella biblioteca (…).

Con una trama così la tentazione di avere il libro tra le mani e leggerlo è stata davvero irresistibile. Era in bella mostra nella biblioteca della scuola, nel lontano 1987.
Ora non ricordo più se ho letto prima il libro e poi ho visto il film o viceversa. Il film di Jean Jacques Annaud l’avevano proiettato nientemeno che nell’aula magna, a scuola (anche il trailer era irresistibile, vedi QUI). Ho riletto il romanzo proprio in questi giorni, il film l’hanno ritrasmesso poche settimane fa su Rai 3. Qualcuno obietterà (e a ragione) che cinque stelle sono troppe. Comprenderete che non posso, a cuor leggero, contraddire il giudizio emesso dal me stesso di tanti anni fa (lo conosco e so che non la prenderebbe bene). Nondimeno mi perdonerà se farò un piccolo bilancio per capire cosa mi è rimasto e cosa ho trovato di nuovo dopo così tanto tempo. Ecco il resoconto.

Contenuto:

La quaestio medievale. Il Nome della rosa è primo romanzo di Umberto Eco. A tutti gli effetti è un giallo, in cui si inseriscono altri generi quali la gothic novel, il romanzo storico, a tratti l’horror. La lettura è agevole, perché ci si muove entro uno schema codificato e riconoscibile, nonostante la presenza di dispute teologiche. In esse si segue lo schema della quaestio medievale, i più volenterosi possono trovarne  un esempio QUI:

I. Il maestro propone o assume una questione (quaeritur),
II. elenca alcune obiezioni (videtur quod),
III. enuncia la soluzione (sed contra),
IV. ne dà una trattazione (respondeo)
V. infine risolve a una a una le varie obiezioni prima avanzate (ad primum, ad secundum, …)

A ben vedere, altro non sono che elenchi: di obiezioni, di soluzioni, citazioni a favore o a sostegno di tesi contrapposte. Solo che le dispute, nel romanzo, si chiudono bruscamente senza giungere a una conclusione (insomma: Gesù rideva o non rideva, era o non era proprietario delle proprie vesti?). Il lettore non è tenuto a seguirle, può sorvolarle. E’ fondamentale che ci siano, in quanto contribuiscono a creare l’atmosfera. Ciò che conta è la lista, l’elenco: di fatti, di citazioni, di immagini, di indizi. Il romanzo è scritto interamente così: è una grande e complicata quaestio nella quale i personaggi principali sono le liste, gli elenchi: “Nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco”, della raccolta e della classificazione, di un inventario nel quale si spera di intravedere un ordine.

L’ordine dell’elenco è anche il rassicurante ordine dell’Universo? È questo il dilemma amletico di Guglielmo da Baskerville e di Adso da Melk.

Non va trascurato il fatto che il romanzo stesso altro non sia che la cronaca di un monaco, un elenco incontrovertibile e immodificabile di fatti avvenuti intorno a un’abbazia nell’arco di sette giorni.

La vertigine della lista. In tutto il romanzo l’autore indulge sugli elenchi:

  • Adso, il narratore, ci presenta lo scriptorium del monastero e chi vi lavora:

«L’elenco potrebbe continuare e nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi» p. 81

  • L’elenco che più seduce Guglielmo è il codice che contiene il catalogo della biblioteca;
  • Nel rievocare gli anni difficili vissuti da Salvatore, un monaco che nella sua deformità richiama il Quasimodo di Notre Dame de Paris inizia una lista di quasi due pagine:

«Dal racconto che mi fece me lo vidi associato a quelle bande di vaganti che poi, negli anni che seguirono, sempre più vidi aggirarsi per l’Europa: falsi monaci, ciarlatani, giuntatori, arcatori, pezzenti e straccioni, lebbrosi e storpiati, ambulanti, girovaghi, cantastorie, chierici senza patria, studenti itineranti, bari, giocolieri, mercenari invalidi, giudei erranti, scampati agli infedeli con lo spirito distrutto, folli, fuggitivi colpiti da bando, malfattori con le orecchie mozzate, sodomiti, e tra loro artigiani ambulanti, tessitori, calderai, seggiolai, arrotini, impagliatori, muratori, e ancora manigoldi di ogni risma, bari, birboni, baroni, bricconi, gaglioffi, guidoni, trucconi, calcanti, protobianti, paltonieri e canonici e preti simoniaci e barattieri….» (p. 192) e qui mi fermo.

  • È un elenco anche quello esposto da Jorge (monaco cieco, eminenza grigia dell’abbazia) nel ribattere contro la necessità dei bestiari (Ogni immagine è buona per ogni virtù?), sui quali si ha il sospetto che in gioventù avesse perso del tempo, ricordandoli così bene:

«…l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita, le civette che insegnano grammatica, orbi che guardano i muti e muti che domandano pane, la formica che partorisce un vitello, polli arrosto che volano…» (p. 87)

Certo, in tutte queste sequenze l’autore non raggiunge i livelli di Victor Hugo, capace di costruire liste di nomi e di vie lunghe dieci o quindici pagine (per esempio nel Novantatréromanzo Novantratré) nelle quali ci si perde. Ma l’intenzione è proprio questa: Eco stesso nel trattato La vertigine della lista altro non fa che dimostrare la tendenziale infinitezza degli elenchi, o almeno di alcuni. Più che nella ricerca di un ordine, ci si affanna nella semplice enumerazione.

Questo è il punto cruciale: se gli indizi, i segni sono infiniti, a quando la ricerca delle leggi generalissime, dell’ordine che esprimono?

«Il massimo di confusione [può raggiungersi] col massimo di ordine» (p. 220), come in un labirinto.

Un elenco può dire tutto, ma anche nulla. Non è necessario dica nulla perché se esso si apre all’infinito, compie alla perfezione la sua funzione. Ecco l’incubo, l’ipotesi raccapricciante che si profila nella mente di Guglielmo.

Guglielmo quindi è già consapevole della problematicità della ricerca, dell’inevitabile disfatta. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge, l’elenco non sarà mai completo. In fondo l’investigatore riesce il più delle volte ad assicurare l’assassino alla giustizia per un’intuizione, certo, ma anche per il sopravvenire di un elemento nuovo, che si aggiunge strada facendo.  L’indagine di Guglielmo non fa eccezione.  Arriva comunque al risultato, magari per vie traverse, come altri investigatori (che siano il tenente Colombo, Derrick, Miss Marple o padre Cadfael non ha importanza). Tra l’altro questo è lo stesso motivo per il quale non esiste il delitto perfetto: anche l’assassino non potrà mai prevedere tutto, qualcosa gli sfuggirà. Gli antagonisti, almeno in questo, si battono ad armi pari.

Sembra quindi non del tutto giustificato il senso di profondo scoramento che afferra nel finale il monaco investigatore. É pur vero che se una cosa del genere fosse capitata a Sherlock Holmes (che Guglielmo richiama de relato per via del proprio nome: i nomi nel romanzo assumono una grande importanza), è probabile che le conseguenze sul piano umano sarebbero state Mastino di Baskervilleugualmente devastanti.

Ciò che è stato colpito non è il modo di procedere e di ragionare, quanto la loro (di Guglielmo e di Holmes) vanità intellettuale.

Guglielmo ha ceduto alla vanità della mente, e non ha tenuto conto dei moniti che qua e là sopravvenivano, come per esempio quello paterno di Ubertino da Casale:

«Ma ti ho detto anche la superbia, la superbia della mente, in questo monastero consacrato all’orgoglio della parola, alla illusione della sapienza…» p. 68

Guglielmo da Baskerville infatti vedrà contraddette una a una le piste fino a ora seguite. Giungerà di fronte all’assassino quasi per caso:

«Ho fabbricato uno schema falso per interpretare le mosse del colpevole e il colpevole vi si è adeguato»

«Io procedo come se l’assassino ragionasse come me. Ma se seguisse un altro disegno? E se, soprattutto, non ci fosse un assassino?» (p.420)

Dobbiamo ricordare che Guglielmo da Baskerville è pur sempre un monaco medievale, uomo del suo tempo. L’esito dell’indagine è devastante per le conclusioni (teologicamente non ortodosse) alle quali è costretto a giungere, sorpreso da un vero e proprio dubbio amletico.

«…nessun ordine nell’universo, forse nemmeno una volontà superiore che regga il tutto, esiste…»

Si tratta di una conclusione di per sé nichilista che coinvolgerà nelle ultime pagine la stessa voce narrante (e quasi eretica), Adso da Melk:

«Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera, né immagine.» p. 503

Sul significato e l’importanza dei nomi. Il senso del titolo.

Ho accennato all’importanza dei nomi. Guglielmo di Baskerville, oltre a rievocare Sherlock Holmes, richiama anche il filosofo del Trecento Guglielmo di Ockham, importante esponente del nominalismo. É proprio il nominalismo che contribuisce a spiegare il titolo del romanzo. Procediamo con ordine.

Il primo atto compiuto da Adamo è quello di fare un elenco. Attribuisce un nome alle creature che gli sfilano davanti, imitando a suo modo il verbo creatore. Non per nulla il romanzo inizia con le parole di Giovanni:

«In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere con salmodiante umiltà l’unico e immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità» p. 19

E questo fa in fondo Adamo, ripete attraverso i nomi che attribuisce l’unico e immodificabile evento della creazione, in modo che egli stesso apra gli occhi e la mente a qualcosa cui non era presente, rendendosene tuttavia partecipe.

Dietro a quest’atto può nascondersi l’insidia. Nelle intenzioni originarie dare il nome alle cose oltre a esprimere la libertà dell’uomo, testimoniava il suo senso di appartenenza a qualcosa, l’essere (a immagine e somiglianza di…). La caduta aspettava fulminea dietro l’angolo. Sostituire all’essere la dimensione dell’avere, del possedere, sia pure attraverso l’apposizione dei nomi, il passo è breve. La divinità caccia la sua creatura dall’Eden, dalla sua creatura la Verità stessa si ritrae.

Cadendo nella trappola, si ritiene che attribuire il nome alle cose garantisca su di esse un potere, permetta di impossessarsi del mondo circostante, senza badare che nelle nostre mani non rimangono che dei nomi. Questo è il senso del nominalismo e della diatriba sugli universali.

Se in principio era il Verbo, nell’uomo in principio è la lista, l’elenco.

Gli elenchi in fondo non indicano cose, ma nomi che a esse si riferiscono. La rosa del titolo dovrebbe indicare ciò cui si è dato il nome. Sennonché può significare mille altre cose: rosa-croce, la guerra delle due rose, una rosa piuttosto che un’altra, persino una donna della quale non resta nemmeno il nome. A tal proposito è grave l’insidia nella quale cade Adso: la donna realmente avuta e amata diventa una presenza rarefatta solo perché gli è sconosciuto il nome, e pare che ne pianga:

«Dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo, e non seppi mai, il nome.» p. 409

«stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (la rosa, che era, [ora] esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi).» p. 503

Ebbene Adso da Melk è l’unico personaggio a portare nel cuore qualcosa, un ricordo, un’esperienza di vita vissuta, una ricchezza, anche se sembra non capirlo affatto.

Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri. Non avere nome significa fuggire: pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono (Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori Milano 2012 p. 7)

Opere e pagine consultate:

1.Bruno Pischedda, Come leggere il nome della rosa, Mursia 1994

2. Roberto Cotroneo, Umberto Eco, due o tre cose che so di lui, Bompiani 2001

3. Umberto Eco, La vertigine della lista, Bompiani 2009

4. Il Caffè letterario, Umberto Eco racconta Victor Hugo (http://caffe-letterario.ilsole24ore.com/)

5. http://www.argomentare.it/quaestio/quaestio.htm

6. http://it.wikipedia.org/wiki/Stat_rosa_pristina_nomine,_nomina_nuda_tenemus

7. Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori 2012


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