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[Recensione] Il tempo è un dio breve di Mariapia Veladiano

Creato il 11 gennaio 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Il tempo è un dio breveTitolo: Il tempo è un Dio breve
Autore: Mariapia Veladiano
Num. pagine: 225
Editore: Einaudi
Anno: 2012
ISBN: 97888062122742
Prezzo: 17,00 €
Voto: [Recensione] Il tempo è un dio breve di Mariapia Veladiano

 

TramaAl centro di questo romanzo misterioso e potente, che scorre in una lingua tersa dove sembrano risuonare insieme gli echi delle vite dei mistici e la poesia di Emily Dickinson, c’è la figura di Ildegarda. Una donna che viene lasciata dal marito amatissimo ma devastato nello spirito. La sua solitudine è illuminata solo dall’amore per il figlio che adora. Quando l’ombra della morte sembra sfiorare il bambino, Ildegarda si interroga sul male del mondo, sulla paura di vivere, di perdere l’amore, di perdere il figlio. Lo strazio per l’abbandono e soprattutto l’angoscia per non saper proteggere il figlio portano Ildegarda a cercare nella sua fede irrequieta una strada di salvezza, un patto con quel Dio che appare impotente di fronte al dolore dell’uomo. È la lotta che ciascuno di noi, credente o no, un giorno si trova a combattere. Un nuovo inatteso incontro, nell’incanto di un paesaggio di neve dalla bellezza struggente, porta Ildegarda a vivere una passione del corpo e dello spirito che ha in sé un’attesa di eternità, di un’altra vita e giorni nuovi. Perché il sogno di ogni amore è che il miracolo non abbia fine. Forse è solo una promessa, ma una promessa è molto più potente di un sogno.

Recensione: La storia qui raccontata è una lunga introspezione nel mondo degli affetti, un incontro di anime che coinvolge tanto lo scrittore quanto chi legge. Entrano in scena diversi tipi di dolore. C’è Pierre: infelice, timoroso delle avversità, pessimista, non crede a nulla se non alla malasorte. Per lui è vano sventare mille e più occasioni di minaccia, perché in agguato vi è sempre la grande insidia, il pericolo perfetto. C’è sua moglie Ildegarda che vede come suo il dolore degli altri, ciò che per gli altri teme, teme per sé. Vi è la madre di Pierre, il cui malessere è voragine che inghiotte la vita altrui, non per cattiveria o volontà di male, ma per un dolore indefinibile che avviluppa tutto quello che tocca, poiché soffre di una depressione che si fa potere e ricatto, che depreda i sentimenti buoni senza restituirli mai.

Si tratta di malesseri che coinvolgono persone adulte e coscienziose, in grado di vederne o inventarne un senso, sempre che ne abbiano desiderio e la forza.

Quello che più sconvolge è il dolore degli innocenti, dei bambini. La sofferenza di un bambino malato pare offerta in sacrificio a chi è più consapevole di lui, che per questo lo vive in sua vece, ricavandone domande, mancate risposte, tentazioni nichiliste:

I bambini piccoli sono gioia pura (…) Benedicono la vita con il loro esistere, con il loro esserci.

Da costoro si impara la vita, da altri la fobia della vita. In ogni caso ci si incatena a una pretesa infondata:

Le gioie dovrebbero essere la condizione normale della vita.

Da tutto questo discende un instancabile interrogarsi e interrogare Dio tra le pagine, il quale tace e non risponde, e se risponde, asseconda un patto in modo terribile. Questo Ildegarda lo capirà molto bene. Come capirà che il fatto di non credere (e fuggire) porta ad avere non solo meno domande, ma anche molte meno risposte. Insomma: tutto ciò che si costruisce sopra, rischia di poggiare su fondamenta di sabbia.

Ildegarda è indubbiamente condizionata dalle atmosfere altrui, pur muovendosi (per indole e cultura) in diversi orizzonti:

Alcuni dei miei pensieri erano quelli di Pierre che avevo assimilato negli anni.

Questo è talmente vero che Ildegarda per ben tre anni non pone più domande, non indaga più sull’accadere finché non le viene presentato un conto salato: Pierre fugge, si eclissa. L’abbandona.

Viene così meno una sicurezza, si teme per tutte le altre, finché antichi e nuovi timori intossicano il quotidiano.

Eppure…

Eppure vi è tutto un gioco di circostanze e coincidenze che è azzardato chiamare fortuite. È più ragionevole vederci un disegno, l’impronta di Dio, assente nella sua presenza, presente nella sua assenza.

A fine lettura si comprende la ragione del titolo: si scopre la felicità senza progetti e senza calcolo, precaria solo perché legata al tempo (sempre breve), però definitiva nel suo accadere, nell‘esserci stata. Si profila, tra le righe, una particolare concezione della fede: in essa tutto è scommessa, le certezze non sono contemplate. Anzi: le certezze la annichiliscono. È la scoperta dell’esserci, del da-sein, non quello dei filosofi, ma delle persone vive.


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