Titolo: Io sono il libanese
Autore: Giancarlo De Cataldo
Editore: Mondadori, collana Libellule
Genere: Romanzo narrativa
1a ed. originale: 2012, 136 p.
ISBN 9788806211097
Prendi in mano questo libro con la voglia di reimmergerti nell’epica di quel Romanzo Criminale che ti ha fatto accapponare la pelle qualche anno fa e che ti ha aperto gli occhi sulle amare vicende di quella banda della Magliana che ha sconvolto la Roma degli anni settanta. E’ certo un prequel, forse non all’altezza di cotanta storia, ma che non delude in un estate del duemiladodici così calda anche senza l’ombrellone. Piacevole dunque riassaporare per un poco anche se forse troppo labilmente le gesta di quei criminali perduti che abbiamo poi visto in film e serial televisivi.
Qui si racconta la genesi del personaggio soprannominato il Libanese e al fedele lettore dell’arte di Giancarlo De Cataldo viene data la possibilità di sbirciare nei primi passi nella malavita del ventenne romano con la conoscenza dell’ineluttabile epilogo: solo i profani potranno sperare, fin quasi all’ultimo, nella sua redenzione a opera della bella Giada dei quartieri alti.
La storia inizia con il protagonista in carcere, vera scuola di malavita, che permette al Libanese di mettersi in luce con personaggi di spicco della camorra che gli prospettano un grosso colpo a cui cercherà di far partecipare la sua combriccola di balordi composta dall’elegante Dandi, dallo smilzo Scrocchia, veloce con il coltello e dal matto Bufalo, la sua gente. Spaccio di droga, furti, rapimenti e omicidi, infarciti di personaggi dai soprannomi come il Terribile, il Puma, ecc… Il desiderio più grande del Libanese è quello di una sorta di emancipazione dai bassi fondi romani attraverso l’organizzazione della malavita romana: il suo recondito sogno è quello di diventare il re della Roma criminale.
L’alba lo sorprese mentre passeggiava sul lungotevere, mani nella tasca del giubbotto, sigaretta fra i denti. Pensava al futuro. Pensava al Turco, quello che s’era preso una cotta per Scrocciazeppi, e pensava al suo datore di lavoro, il barone Rosellini. Quanto poteva valere uno così? Un miliardo, cinque, dieci? Valeva la pena di provarci, no?
Preso così com’è in fondo non un granché, ma si tratta di un libro ben scritto e quindi godibile: assolutamente consigliato a chi vuole reimmergersi ancora una volta nelle vicende della mala romana degli anni settanta.
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