Magazine Cultura
Ciao a tutti!
Forse è la volta buona che riesco a rimettermi in carreggiata con i post.... Nuovo album, nuova recensione, vecchi conoscenti e suoni vissuti, tutto questo è "Dust Bowl".
La carriera di Joe Bonamassa, classe 1977, è stata fulminea, tanto da vederlo su un palco per accompagnare Sua Maestà B.B. King a soli 12 anni, dopo che lo stesso King, vedendolo suonare una sola volta ha detto "Il potenziale di questo ragazzo è incredibile", è considerato uno dei migliori chitarristi sulla piazza (viste le premesse era inevitabile), e dal 2000 ha sfornato la bellezza di 11 album da solista, oltre a "Black Country Communion" album di debutto dell'omonimo supergruppo formato insieme a Glenn Hughes, Jason Bonham e Derek Sherinian, e al suo successore, "2", in uscita a giugno di quest'anno, ma tempo al tempo, di questo parleremo in futuro, oggi vi parlo dell'ultima uscita discografica del signor Bonamassa.
A un anno esatto dal precedente "Black Rock", e registrato tra Grecia, California e Tennesse, "Dust Bowl" è un album decisamente significativo, a partire dal titolo, che letteralmente significa "Conca di polvere" e che si riferisce, così come la copertina stessa, ad una serie di tempeste di sabbia che all'inizio degli anni '30 colpirono gli Stati Uniti centrali, causando non pochi danni a case, persone e coltivazioni. La connessione con il passato è evidente in questo riferimento tanto quanto nel sound che attraversa i 12 brani della tracklist, per i quali Joe si è avvalso della collaborazione di un bel mucchietto di artisti, tra cui Carmine Rojas, già bassista di Rod Stewart, John Hiatt, chitarrista e pianista con una lista di collaborazioni da far venire la pelle d'oca (da Bob Dylan a Eric Clapton tanto per citarne un paio), Vince Gill, countryman di gran classe, Chad Cromwell, batterista, tra gli altri, di Neil Young e Mark Knopfler, e poi Glenn Hughes, Blondie Chaplin, Beth Hart e chi più ne ha più ne metta....
Ma ora è il momento di analizzare l'album, stereo acceso, disco sul piatto e.... Tutti ai propri posti! Si parte con "Slow train", ed è proprio il suono di un treno in partenza quello simulato magistralmente dalla batteria all'inizio del pezzo, dapprima molto lento e poi con un ritmo sempre più incalzante, seguito a ruota da Joe che chiarisce subito quale sarà l'impostazione dell'intero album, il brano è un blues che più classico non si può, con qualche mini assolo piazzato qua e là, ma pur sempre di una qualità superba, e con la voce leggermente strozzata come da manuale. Un ultima rullata ci spedisce direttamente alla traccia successiva, la title track, ovvero "Dust Bowl", dove comincia a comparire qualche effetto tra il wha-wha e l'elettronico, il suono è tendente al dark e alla New Wave, anche se Joe ricorda a tutti di essere un chitarrista blues con un bell'assolo piazzato al centro della traccia. Il terzo pezzo è un rock'n'roll d'annata, "Tennessee Plates" sa di anni '60, di palcoscenico di legno grezzo in una balera, e oltre alla solita classe mostruosa di Bonamassa si fa sentire al pianoforte Mr. John Hiatt, che ticchetta sui tasti in maniera eccelsa, provate a star fermi se ce la fate!
Bastano un paio di colpi ai tamburi e una chitarra al punto giusto per tornare nel blues più antico, "The meaning of the blues", secondo me punta di diamante dell'album, è semplicemente questo, batteria cadenzata, chitarra quasi sempre in secondo piano (se non per un altro ottimo assolo) e voce sofferta, in una parola, Blues, tanto facile da pronunciare quanto a colpire dritto all'anima.... La musica cambia ancora, o forse no? "Black Lung Heartache" in realtà è ancora un blues, ma la partenza trae in inganno con sonorità tra l'etnico e l'orientale, con Joe che si diletta suonando strumenti greci come Tzouras, Baglama e Slide bouzouki, la canzone inizia e finisce con questi suoni, diventando un po' più grezza nella parte centrale, e il risultato è decisamente di alto livello. Se amate Jimi Hendrix (e se non è così pentitevi e fate ammenda immediatamente) è arrivato il momento di alzare il volume, perchè quando parte "You better watch yourself" sembra che il Dio delle sei corde riviva in quelle della chitarra di Joe, e non c'è altro da dire, un tuffo nel passato lungo tre minuti e mezzo....
Passato il giro di boa nel migliore dei modi, si passa alla psichedelia con "The last matador of Bayonne", un brano lento di oltre cinque minuti che ha molto del sound tipico dei migliori Pink Floyd, con lunghe parti strumentali e note allungate a dismisura, pur mantenendo la vena di blues caratteristica di tutto l'album. Sfumando si arriva alla traccia numero 8, "Heartbraker", a metà tra il solito blues e un po' di dark wave, con la gentile collaborazione di Glenn Hughes al basso, e poi, dopo il suono di una sirena della polizia si torna ancora alla psichedelia, con i suoi 6 minuti e 32 secondi "No love on the street" è il secondo pezzo più lungo del disco, e qui Bonamassa mostra tutto se stesso, con assoli da far fumare le dita e una voce veramente molto espressiva. Un altro ottimo assolo ce lo riserva "The whale that swallowed Jonah", decima traccia che porta il sound a virare leggermente verso un country-folk-rock, per poi discendere del tutto con la successiva "Sweet Rowena", che ci proietta dritti in una balera degli anni '50, uno swing-blues con tutti i crismi, con un cantato da schioccare le dita e un pianoforte a muro ticchettato con la decisione giusta. Per l'ultima traccia non può che tornare il blues a farla da padrone, "Prisoner" è lento, sofferto, a tratti urlato e a tratti sussurrato, con grandi svisate chitarristiche, un ottimo accompagnamento di batteria e un risultato finale che si avvicina non poco a Eric Clapton, la degna chiusura per un disco come questo....
Insomma, se già le aspettative sono alte quando si parla di un musicista come Joe Bonamassa, dopo poco più di un'ora di ascolto vengono pienamente soddisfatte, "Dust Bowl" è un disco che sa di passato, sa di quel già sentito che però non stanca mai, sa di una speranza, quella che la musica fatta come Dio comanda torni a farla da padrone in un periodo musicale veramente di basso livello, la tecnica e l'espressività di Joe sono qualcosa di veramente eccezionale, e questo suo ultimo lavoro ne è la riprova, il sunto dell'inter album? Joe Bonamassa è un grande chitarrista e un grande bluesman, e la sua musica incanta, risuona sotto la pelle e travolge, come una grande tempesta di sabbia....
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