Titolo: L’arte di raccontare
Autore: Cesare De Marchi
Editore: Storia e Letteratura (collana Civitas)
Anno: 2013
ISBN: 9788863725186
Numero pagine: 96
Prezzo: € 9,00
Genere: Saggistica
Voto:
Contenuto: Dopo la pubblicazione del saggio ‘Romanzi. Leggerli, scriverli’ (2007), l’autore torna a riflettere sul genere letterario romanzo e raccoglie una serie di considerazioni condotte sul duplice versante della lettura e della scrittura. I romanzi, questi oggetti di “sostanza immaginaria”, non sono che “un movimento di parole”: ogni testo è un movimento verbale, e il movimento specifico del testo romanzesco è narrativo; e dato che la narrazione è sempre narrazione di qualcosa, vi sarà sempre un oggetto fattuale (o piuttosto pseudofattuale) che viene narrato. Questo è l’unico, sottile legame del romanzo con la realtà, la quale, anche quando richiede il sostegno di un’immagine mentale, apre sul mondo “un occhio linguistico”. “Nel romanzo tutto è parola, dal luogo della vicenda alla vicenda e al pensiero”. Proprio per questo il romanzo è un luogo tutto verbale, che evoca ma non riproduce la realtà, e che per essere letto non richiede, anzi esclude ogni immedesimazione.
Recensione: Si tratta di un volumetto di una novantina di pagine, il taglio è molto teorico ma non privo di interesse. Rimanda per alcuni aspetti al precedente Romanzi, leggerli, scriverli, edito da Feltrinelli.
L’autore tiene a precisare che le considerazioni qui contenute non provengono da un critico di professione, ma nascono da consuetudine di lettura e dall’esercizio della scrittura narrativa, le quali pongono al centro di tutto la parola.
Chi ha studiato un poco di filosofia (e Cesare De Marchi in primis è filosofo per corso di studi) sa benissimo che prima di iniziare una qualsiasi dissertazione è indispensabile accordarsi sul significato dei termini usati, affinché non vi siano fraintendimenti.
Le definizioni che interessano non sono semplicemente quelle del dizionario (imprescindibile punto di partenza). Esse contengono in sé già un’interpretazione che traccia il percorso.
Capita talvolta di leggere o di sentire che solo il cartaceo può assumere la dignità di libro, e che l’ebook non possa in alcun modo esservi annoverato.
L’autore, muovendosi agilmente sul terreno della sostanza, non si limita a comprendere nel termine la forma digitale. Un libro non è costituito di immagini, di fotografie e disegni (certo, vi sono anche quelli), piuttosto «è un luogo tutto verbale, che evoca ma non riproduce la realtà».
Se è il contenuto (testuale) a creare il libro, alla fine esso può assumere qualsiasi aspetto. È la pergamena arrotolata, è la tavoletta cerata (tabula, volumen, liber…), è l’ebook, è la tavola d’argilla che contiene la storia di Gilgamesh.
Per converso ciò che assume le sembianze di un libro, nella realtà potrebbe non esserlo affatto. Esistono anche i cartonati da esposizione, modello Ikea.
Si giunge così al punto saliente: cos’è un testo (racconto, romanzo, saggio che sia)?
L’elenco telefonico non è (non contiene) un testo. Non sono testi il libro degli inventari, né il libro mastro del ragioniere. Nemmeno il dizionario della lingua italiana lo è. Quelli ricordati sono per lo più liste da consultare.
È il racconto a contraddistinguere un testo: un saggio storico racconta gli eventi del passato, un saggio filosofico che dirime controversie e questioni ce le racconta. Il libro che stiamo esaminando è un racconto che racconta il raccontare. In ogni caso ci si rivolge a qualcuno. Qualcuno che scorre il testo, lo comprende e se ne lascia coinvolgere. Il nocciolo dell’arte di raccontare è dar voce alle parole e alle loro suggestioni. Si entra nel vivo della capacità di un testo di esprimere e trasmettere un’emozione.
Primo corollario di questa catena di ragionamenti è che un testo che contenga geroglifici incomprensibili è una contraddizione di termini. Secondo corollario è che chi scrive deve essere in grado di articolare ed esprimere nella sua lingua una frase dotata di senso compiuto. Il terzo corollario chiude il cerchio e fa il paio con il primo: il testo deve essere compreso dal destinatario, in questo caso il lettore. Se il lettore non è all’altezza, tutto il castello costruito crolla per difetto delle sue fondamenta.
L’ultimo capitolo del saggio – Le mode e il cambiamento – tira le fila schiudendosi all’attualità. Di fatto mette il dito nella piaga e i nodi vengono al pettine.
Dare per assodato che il lettore medio non sia in grado di seguire frasi con più di sedici parole, vale a rompere le uova nel paniere a qualsiasi narratore. Entrano in gioco le logiche del mercato editoriale, costretto a uniformare l’offerta pur di conquistare il lettore così com’è.
A questo punto si pone una domanda inquietante: quali e quante opere (della grande letteratura e no) sono, attualmente, fuori dalla portata di questo fantomatico lettore medio?
Ne consegue che lo scrittore, per arrivare ai più, si vede costretto a semplificare il linguaggio, a offrire la sintassi più primitiva possibile, non sempre adatta allo scopo. Non è questa la morte dell’arte del raccontare?