Titolo: L’esperimento
Autore: Mauro Covacich
Editore: Einaudi
Prezzo: 18,5 euro
Pagine: 161
Anno: 2013
ISBN: 978-88-06-20019-0
Voto:
Trama:
Gioia è una campionessa di scacchi che dalla nascita ha problemi fisici, per cui usa la sedia a rotelle e la sua vita, soprattutto grazie alla sua limitazione, per svariati anni è sempre stata scandita da tornei, partite, allenamenti. Tutto questo ha inizio per via dell’esperimento: suo padre cercò di replicare il piano già messo in atto dall’ungherese László Polgár, appassionato di scacchi, psicologo e dotato di tre figlie anche lui. L’uomo mirava a sostenere una tesi secondo la quale il talento innato non esiste, ma è un’abilità che si conquista con la pratica assidua nel tempo; pertanto Gioia e le sue sorelle vengono iniziate agli scacchi che fin dalla tenera età sono il loro pane quotidiano, finché le altre due non si stufano prendendo altre strade e resta solo la protagonista che, inchiodata dalla propria disabilità, non può fare altrimenti che buttarsi a capofitto nella disciplina, seguita dal suo maestro -in un certo senso suo secondo padre/amico/amante- Denis e diventare un genio. Questo fino a che le cose cambiano: di punto in bianco Gioia comincia ad avere le visioni, di quelle che vengono agli scacchisti durante le partite, in cui vede un re vestito da rapper e una rossa regina vivere nella sua testa, quasi cercassero di comunicarle qualcosa; ma a scombinarle i piani sarà soprattutto Stefano, il giornalista dai lineamenti da attore, giunto da lei per intervistarla, ma che porterà colori nuovi, sfumature impreviste che creeranno scompiglio nel suo modo di vivere così preciso, rigoroso, prevedibilmente calcolato fino alla nausea.
Recensione:
Romanzo che all’apparenza parla di scacchi, ma si rivela molto di più. La protagonista, a vederla superficialmente si potrebbe fare l’errore di definirla un personaggio statico perché costretta su una sedia a rotelle; beh, niente di più sbagliato. Non si è mai vista scheggia più impazzita: vaga da una parte all’altra della sua testa, si muove rapida, vaglia mosse nelle scacchiere dell’immaginazione e della realtà. Per lei la vita è una partita in cui c’è una spiegazione logica per qualsiasi cosa. Tuttavia, le visioni e l’amore sono inaspettate e pericolose turbolenze che la destabilizzano, portandola a considerare che non tutto è perfettamente matematico/geometrico e stare al mondo non vuol dire sempre fare un calcolo e risolvere un’equazione, non si può avere sempre un perfetto controllo. E’ un incessante susseguirsi di varianti che non si possono nemmeno immaginare e proprio Gioia lo sperimenterà sulla sua pelle.
Sul piano narrativo, la storia va veloce: è un continuo rimpiattino tra i discorsi Gioia/Denis-Gioia/Stefano e la vita di coppia di re e regina, conoscere la depressione di lui e lasciarsi trascinare dalla fantasia di lei. A rifletterci bene, è come se si stesse giocando una partita a scacchi tra ragione ed emozioni, visto che stilisticamente c’è un rallentamento quando si passa alle visioni: le conversazioni dell’immaginario sono meno tese, quasi non si trattasse più di una sfida, di una gara d’intelligenza; bensì di un recupero di quel mondo emotivo che tra una mossa e l’altra, Gioia si è persa per strada. C’è qualcosa di speciale, a volte anche ancestrale, che ci riporta al calore di quando eravamo bambini, alle delusioni del dover crescere ed affrontare le difficoltà quotidiane. Nel mondo delle visioni ci sono sensazioni di pubblica appartenenza, che collegano ogni persona con un magico filo rosso, richiamando alla memoria pezzi di puzzle d’esistenza che ogni persona ha vissuto e non dimenticherà mai. Guardate la bellezza di questi due stralci: uno è una riflessione che scatta quando il re vede una ragazza il cui mestiere è declamare poesie in strada, mentre gli automobilisti s’incantano ad ascoltare; l’altro riguarda le persone che incontra uscendo, che non sono tutte felici come invece la regina gli aveva sempre raccontato.
I versi con i loro abracadabra spalancano stanze della memoria che quasi nessuno ricordava di possedere. Sciolgono qualcosa dentro. Grembiulini, gessetti, la merenda dopo i compiti, la preghiera prima di coricarsi. (…) Avverti anche un senso di condivisione, una specie di flusso che scorre chissà quanti chilometri sottoterra e che lì, con quelle parole gridate al microfono, affiora. (…)
Qui vengono sorpresi: l’infanzia, la scuola, la lingua italiana. Il canto di questa donna irrompe dal nulla, gli tira un’imboscata. Ci tira un’imboscata. Sentiamo tutti che quelle parole ci appartengono. E noi apparteniamo a loro.
Sono questi gli umani di cui gli parla la regina, suoi simili capitati come lui a combattere la stessa battaglia forniti però di un’infinità di storie allegre, nomi buffi, vite vissute che schiudono i loro forzieri colmi d’oro al primo in grado di osservarle con cura. Eppure il re davanti a sé ha solo espressioni torve, guance sulla cui superficie sporgono, in lenta pulsazione, i muscoli delle mandibole contratte. Anche quelli che ascoltano musica sembrano preoccupati. Non vede gente gioiosa, vede coliti spastiche, vaginiti, ernie discali, balanopostiti, vede herpes genitali, ragadi, sciatalgie, cervicali, ulcere duodenali, gastriti, riflussi esofagei. Una guarnigione compatta di disperati che nascondono la loro autocombustione dentro giacconi neri o grigio canna di fucile.
Questa frattura tra il rigore della vita reale e l’ancestralità della fantasia, rende la narrazione bitonale; è come avere un continuo contrasto tra freddo e caldo in cui quest’ultima parte crea una fenditura nell’altra e la invade, fuoriesce dal proprio spazio fino a contaminare tutto il resto. Sicché le due tinte si confondono, perdono sé stesse, si mescolano in una tavolozza.
A proposito di tavolozza: il primo elemento a trovare risalto nello stile di Mauro Covacich è proprio l’immagine. E’ come se invece di scrivere prendesse le pagine a pennellate; intere scene, situazioni, sapori, odori, prendono forma creati da spatolate impressioniste. Egli sa rendere il suo mondo interiore materico, distinto, palesemente reale, pulsante, vivo, come se il libro fosse più il risultato di tele in successione l’una con l’altra. Come se potessimo essere partecipi.
E loro tremano dentro quelle enormi cuffie sbilenche, con le mani giunte in preghiera, e hanno il costumino moscio dietro e una virgola di pisello davanti.
Sente che l’acqua non lo respinge più verso la superficie, è come se avesse deciso davvero di accoglierlo nella sua massa sconfinata. Per scendere ora basta lasciarsi cadere con le braccia lungo i fianchi. I polmoni bruciano, sgonfi, ma lui è in uno stato di euforia prossimo all’esaltazione più pura. Un sasso felice.
Il linguaggio utilizzato è schietto, irriverente, dallo spiccato sarcasmo, particolarmente adatto a calamitare il lettore verso le pagine. Senza troppi giri di parole delinea i personaggi alla perfezione, senza mastodontici sermoni hai già l’esatta resa, l’idea dell’individuo presentato. E’ una scrittura viva, che punta subito all’essenza delle cose. Per farvi meglio capire vi riporto la descrizione di due vecchietti in piscina, in cui i due sembrano così reali che davvero ci manca solo toccarli.
Entrambi magri, incartapecoriti, qualche ciocca di capelli che sporge a casaccio dalla cuffia sulle ventitre, avanzano uno accanto all’altro trascinando piano le ciabatte per non scivolare. Lui ha due rami secchi al posto delle gambe, il costume tirato fin sopra l’ombelico, lei invece, ben sagomata sottopelle a metà strada tra la clavicola e il seno, sfoggia la scatoletta del pacemaker.
Riguardo all’irriverenza, ci sono punti in cui scatta fuori tutta d’un tratto nel bel mezzo di parti apparentemente tranquille; espediente che ho trovato spassoso, anche perché il linguaggio usato non è mai così forte fino a certi punti. Situazioni che sdrammatizzano, tirano fuori a sorpresa la narrazione dal proprio asse, fino a dissimulare dall’eccessiva serietà. Io personalmente, a trovare dialoghi e racconti del genere nel bel mezzo di discussioni e riflessioni abbastanza profonde, introspettive, non ho potuto fare a meno di ridere per via della schiettezza, per la pulizia creata dall’eccessiva sincerità, questo marcare, mettere finalmente i puntini sulle I.
D: Ne sono lusingato. Però ecco, non è questo. Cercavo di pensarti laggiù nella casa paterna, imbozzolata nella tua crisalide, una pupa intatta nel nido, mentre Elisabetta e Lorenza…
R: Mentre Elisabetta e Lorenza tornavano a casa con le ali imbrattate di sperma.
Detesta la regina da quando ha commentato in pubblico un suo aneddoto. Un ragazzino ebefrenico si era masturbato durante una lezione e Ufficiale Gentiluomo lo stava raccontando schifata a un gruppetto di corsiste.
<<Bé, dovresti essere contenta, -le ha detto la regina.
-Quando mai hai avuto tanta attenzione da noi?>>
Proprio il sarcasmo, le espressioni così colorite, sono tanto divertenti quanto ingannevoli, facendo sembrare la narrazione allegra, mentre il dramma è costantemente sotteso. Striscia sottoterra, attraversa binari e meandri delle teste, delle vite dei personaggi, per poi farsi largo ed esplodere fuori: tuttavia non sto parlando di melodrammi evidenti; il dolore vero e puro, quello che spacca il cuore e annienta le forze fisiche e morali, è tirato fuori a fatica, con un certo pudore e dignità, senza la sfacciataggine di essere reso palese, di essere sbattuto in faccia alla peggio addosso agli altri. E’ come se ci fosse un’incomunicabilità di fondo, come se in fin dei conti ciascuno cercasse la forza di affrontare i propri fantasmi da solo ed i tentativi altrui di essere d’aiuto non servissero a niente. Come se l’acutezza delle conversazioni, l’asprezza di certi modi e linguaggi, fosse un sipario utilizzato per coprire, mascherare alla meglio qualcosa che rugge per palesarsi, una sofferenza lampante che fa tutto il possibile per uscire, ma nel contempo per non essere esternata.
E’ un libro cento volte più delicato di quello che sembra, che cerca di mostrare la forza di un colpo di fucile, ma in fondo ha la fragilità di una piuma, come in fin dei conti è l’anima di tutte le persone.