Titolo: L’odore della felicità
Autore: Simonetta Mannino
Editore: EEE
ISBN: 9788866900368
Numero pagine: 148
Prezzo: € 4,99
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Voto:
Trama:
La felicità è soltanto una semplice e fugace sensazione sensoriale per Nina, la protagonista di questo racconto. In una fredda giornata di neve, assieme alla sorella Ornella, mentre aspetta che i vigili del fuoco entrino nella casa della madre che da tre giorni non risponde al telefono, Nina rivive in flashback il suo passato. La madre, apparentemente affettuosa ma in realtà murata nel suo male di vivere e nella sua solitudine che cerca di compensare con il vino; la sorella Ornella, così pratica, concreta, e anche gelosa della sorellina; un padre che ha abbandonato la famiglia. Questo è il mondo di affetti malati e incompleti di Nina, che la portano a sviluppare una sorta di masochismo che sfocia in episodi di autolesionismo, sia nell’infanzia sia nell’età adulta. Appena maggiorenne, la protagonista lascia la fabbrica – ha anche tentato di studiare, ma non è riuscita a conciliare studio e lavoro – per esibirsi in un night e finisce per prostituirsi: vuole denaro, molto denaro, per regalare alla madre un’esistenza più agiata, e in qualche modo forse comperarne l’affetto, ma intanto continua ad autodistruggersi. Anche l’amore non è che illusione: di Nina, ovviamente, perché per gli uomini lei è soltanto una puttana.
Recensione:
Ci sono tanti dolori e tante solitudini, aspiranti suicidi inascoltati, incomprensioni, realtà squallide e vite fatte di “avrebbe potuto essere” e pentimenti. Scriverne può essere catartico e far sentire meglio, ma allo stesso tempo se un testo del genere capitasse nelle mani di qualcuno che ha già la sua brutta storia fresca fresca alle spalle potrebbe diventare un involontario suggerimento: se si è dei falliti convinti che dalla vita non ci sia altro da aspettarsi se non ulteriori fallimenti è meglio evitare questo genere di lettura.
Dalla prima all’ultima riga è tutto intriso di un’idea di morte, di arrivare sempre troppo tardi e di non avere speranze di redenzione. L’amore e la felicità non esistono, sono solo bugie o illusioni, sul più bello che ci si aggrappa a qualcosa che dà la forza di vivere e superare situazioni difficili ci si rende conto di essersi sbagliati. Di essere sbagliati, e questo è un altro grande tema di fondo. La protagonista tenta in tutti i modi di aggirare il male di vivere che la dilania dall’interno, ma la vita non fa che accanirsi contro di lei e aggiungere delusioni a delusioni, facendosi sempre più squallida e disillusa; e lei si chiude sempre più su se stessa, distacca la mente nel ricordo dei pochi ricordi felici dell’infanzia, si concede ai clienti del night come l’oggetto che loro desiderano. Perché è questo che viene ribadito: essere un oggetto, la parola “puttana” ricorre fin troppo spesso, sfruttata da chi ha i soldi e sfamata dal pensiero di potersi un giorno redimere.
L’incontro con la morte della madre e l’ineluttabilità di un destino che non lascia scampo sono il colpo di grazia: il romanzo si chiude con un’effimera felicità sulla riva del mare, dove finalmente Nina trova l’unica via di scampo alla situazione che si sta chiudendo su di lei. Sono le onde del mare a sostituire l’abbraccio della mamma, sempre paragonate a lacrime tra l’amaro e il salato, e l’ultimo pensiero è una malinconica accettazione: morire, quando non si ha più niente, è l’unico lieto fine possibile.
Ci vuole del coraggio, tuttavia, per trattare in modo tanto crudo e nitido un argomento così delicato. Questo è sicuramente da apprezzare, nonostante nell’insieme sia stato scelto un impianto troppo drammatico e autocommiserativo. È una storia come tante altre che restano chiuse tra le mura di casa e scoperte troppo tardi; forse se chi soffre così tanto avesse il coraggio di parlarne con qualcuno e la fortuna di trovare le persone giuste si eviterebbero tanti danni irreparabili e tanti rimpianti da “è sempre troppo tardi”.
Forse è proprio questo a fare abbassare il tono del giudizio: la narrazione è troppo angosciante, pesa tantissimo sulla trama e la rende concentrica e soffocante, senza uscita, fino a creare un effetto di “claustrofobia” che trasforma la trama in un elenco di situazioni critiche e frustranti che si ripetono sempre uguali e fini a se stesse tanto nel passato quanto nel futuro.