La dittatura dell’inverno
di Valeria Ancione
Titolo: La dittatura dell’inverno
Autore: Valeria ancione
Serie: //
Edito da: Mondadori
Prezzo: 18,00 €
Genere: Narrativa
Pagine: 314 p.
Trama: «Tu sei fatta per correre e ogni tanto fermarti a prendere fiato» dice a Nina suo marito Michele, che la conosce bene, la ama e con lei ha avuto cinque bellissimi figli e aperto una piccola catena di librerie. Nina è così, una donna che corre, come e più di tutte, tra la famiglia multicolore cui ha dato vita e la famiglia allargata dei clienti, che nella Tana di Michele, la libreria più speciale, possono anche gustare le sue crostate squisite e il suo tè profumato. Ma Nina ha freddo, perché è sopraggiunto l’inverno, con gli abiti pesanti, gli impegni a ogni ora, la negazione della luce, che induce al nascondimento, al proibito… L’inverno è una dittatura che la attanaglia, le accende il desiderio del sole sulla pelle, di una libertà dai molti ruoli che tutti si aspettano che lei interpreti senza sbavature. È così che Nina va in piscina a nuotare, solo l’acqua intorno come in uno scampolo d’estate. E lì conosce Eva: nemmeno trent’anni, un corpo vibrante, occhi affamati di felicità. Eva è coraggiosa e originale, è dolce e capisce tutto al volo. È una donna, non c’è nulla di male a diventarne amica, a vedersi nei ritagli di tempo… Fino a che un sentimento immenso, imprevisto e imprevedibile, sorge tra loro con la forza di un’onda che non si può arginare. E mentre l’inverno porta con sé molti altri turbamenti, tanti incontri che la fanno sentire viva e insieme mettono in discussione ogni equilibrio, Nina cerca di guardarsi dentro, di capire che cosa vuole davvero. Alla dittatura dell’inverno, quando il freddo della vita ci schiaccia, si soccombe o ci si ribella, ci si arrende o si combatte per imporre la propria identità: che non è più quella di prima, ma può diventare ancora più forte e fiera quando il sole torna a splendere. Al suo esordio narrativo, Valeria Ancione ci sorprende per la naturalezza e l’energia della sua scrittura e ci affida una storia delicata e speciale, che ci ricorda come anche l’esistenza più piena e felice possa essere attraversata dal lampo folgorante di una nuova possibilità.
di Livin Derevel
Per riassumere in breve la trama: Nina è una donna qualunque. Quarantenne borghese, benestante, ottima pasticcera, madre di cinque figli e moglie di Michele, uomo affettuoso e tenero con il quale condivide la gestione di tre grandi librerie di successo. Un bel giorno per caso incontra Eva, una giovane sgallettata di ventotto anni, lesbica, che la coinvolge in una scappatella e le ricorda di avere una dimensione femminile personale.
Nina, totalmente incapace di gestire questa sua nuova libertà, passa trecentododici (312) pagine a convincere se stessa e i lettori che:
1. quello che prova per Eva è amore puro;
2. il fatto di intrecciare contemporaneamente una relazione sentimentale con una donna e due relazioni sessuali con altri uomini non è tradire suo marito.
Questo piccolo sunto è bastato a scoraggiarvi dal leggere questo libro?
No? Come no?!
E va bene, se rimarrete su questi lidi lo state facendo a rischio e pericolo vostro e dei vostri neuroni.
Siete sicuri? Sicurissimi?
Bene.
Lo so cosa state pensando. “Livin, te sei una stronzaccia e si sa che odi tutti, però non puoi dare una stella a tutti i libri che leggi, eh!”
Infatti di norma è raro che mi capiti di dare un stella… non è colpa mia se per le recensioni mi scelgo sempre i peggiori (ma tanto so che adorate le reccy critiche quindi lo faccio anche per voi).
Parto col dire che l’idea di base – Nina: donna di mezza età che dopo molto tempo si rende conto di non essere solo moglie e madre ma anche individuo – era bella, molto.
Non sono una fan della famiglia tradizionale né del ruolo imposto alla donna dalla società fallocentrica, in cui per sentirsi realizzata debba per forza formare un nucleo familiare oltretutto fondato su un sentimento sovrastimato e favolizzato come l’amore. Perciò è stata con una certa gioia che ho visto Nina uscire dalla sua gabbia dorata e spingersi fuori, verso nuove esperienze che avrebbero potuto donarle nuove sensazioni di indipendenza, di forza, e la possibilità di trovare una se stessa matura, consapevole e rinnovata.
La gioia è colata a picco quando mi sono accorta che Nina è un personaggio assolutamente detestabile, di un’idiozia lapalissiana e a cui manca del tutto il senso della realtà, egoista nel suo delirio di frivola onnipotenza e di una superficialità che lascia sconcertati.
Come già anticipato, Nina è una donna qualunque, che ricalca un buon numero di componenti polically correct: odia il trucco e i ritocchi estetici perché convintissima che siano espedienti falsi e quindi infidi, è una lavoratrice indefessa che si riempie le giornate da mattina fino a sera non crollando mai – e aggiungendo alla sua routine ulteriori compiti che corona con trionfo, è di una bellezza talmente abbacinante che non c’è un solo uomo che non le faccia la corte. Ripeto: dopo quattro gravidanze.
L’Angelina Jolie dei poveri insomma.
Entra in scena Eva, che malgrado i ventotto anni suonati viene definita “piccolina”. Probabilmente perché si comporta come se ne avesse sedici.
Eva è una traduttrice squinternata che si approccia a Nina con la delicatezza di un elefante e la simpatia del tizio brillo che in discoteca vi balla addosso sperando di agganciarvi.
Tra le due scoppia una passione travolgente e per un breve periodo di tempo si frequentano ma soprattutto si sentono attraverso una lunga serie di sms, a cui Nina si rapporta come un’adolescente sul genere di: Mi ha risposto? Perché non mi risponde? Che fai senza di me? Dove sei? Mi arrabbio, giuro che mi arrabbio. Non voglio farmi sentire io che se no sembro ansiosa.
Vai tranquilla, Nina, non sembri affatto ansiosa.
Durante questo periodo Eva spesso si lancia in discorsi dell’assurdo in cui vuole (o almeno pare) convincere Nina a ufficializzare il loro “amore”. Nina – in uno dei suoi pochi ma giusti slanci di buonsenso – risponde che la cosa è un filino ostacolata dall’avere una famiglia.
Ed ecco Eva che…:
“Voglio te senza farti male, senza che tu stravolga del tutto la tua vita, ma con consapevolezza e senza nasconderti e nascondermi.”
Certo, Eva, ha senso.
Questa dinamica si ripropone per tutta la prima parte del romanzo, un loop che vede Nina svolgere le sue normali faccende domestiche e lavorative, quelle due o tre orette di viaggi mentali tra pro e contro dello stare con Eva, messaggiare con lei attraverso una sfilza di sms che trasudano melassa aforistica da due soldi (non mi spiego come Michele non si sia accorto dello stucchevole puzzo di miele proveniente dalla moglie), flirt con il Direttore e il Professore, e a giorni alterni gli incontri con Eva.
Poco dopo la metà dell’opera Nina giunge alla conclusione che ‘sta storia con Eva deve finire! (E io con lei, non ne potevo più già dopo due capitoli.) Perciò ecco che, con l’aiuto dell’estate, Nina pianta Eva e poi se ne va in vacanza coi figlioli e fregacazzi tutto il resto.
Periodo di apparente benessere, ecco che la Nina donna ha una sua riscoperta malgrado l’immenso ammmmmore per Eva che l’ha cambiata, idillio e tensione sessuale col Direttore e col Professore (perché non ci sono i nomi? Boh, non chiedetelo a me), e dunque una vacanza assieme a Michele, soli soletti a fare i romantici in Portogallo.
Una volta lì Nina, presa da un bizzarro quanto insensato sprint (nonché inutilissimo, siccome ai fini della trama è occorso soltanto per aggiungere giusto altre cinquanta pagine di riflessioni simil-filosofiche e sesso scritto male) rivela a Michele della sua storia con Nina.
E come lo fa?
Dichiarandogli in faccia non solo che si è “innamorata” (mi dispiace se le virgolette vi danno da fare, ma il termine amore è stato ripetuto e abusato in maniera tanto impropria e inopportuna che ci tengo a farvelo capire) di un’altra persona, ma… che la ama ancora. E che non smetterà mai di amarla.
Nina.
Ma.
Che.
Cacchio.
Ora, piccolo approfondimento di buonsenso.
Tu, donna fedifraga (checché tu ne possa pensare sei un’adultera e prendine coscienza) che confessi al marito – un marito innamorato, devoto, sincero – che hai tradito perché, dico perché ti ostini a calcare sul fatto che non smetterai mai di amare la tua amante?
Ti diverte infierire contro il tuo uomo? O sei così presuntuosa ed egoista da credere che il tuo tradimento sia legittimo e anzi, ti rammarichi che Michele si arrabbi?
E lo accusi anche di non capirti?
Di non capirti?!
Nina, stura bene le tue orecchie di perfetta quarantenne gnocca: stai ferendo i sentimenti di tuo marito.
Non si tratta del legame fatuo del matrimonio religioso o legale, non si tratta di aver sforato le righe di un semplice contratto. Quello che tanto fa uscire di testa Michele è che lui si fidava di te, della tua lealtà, dei tuoi sentimenti verso di lui.
E lo stai biasimando perché se ne offende.
Nina, hai il cervello su Marte.
Quello che più mi irrita è che Nina non ha nessuna idea di cosa stia realmente dicendo.
Mano a mano che si procede nei capitoli è palese che il fantomatico “amore” che prova per Eva è un amore riflesso per la propria giovinezza passata. Ciò che la attrae di Eva infatti sono la sua freschezza, la sua ingenuità, la sua spontaneità, la sua energia, fare sesso con lei è rivivere gli anni verdi quando ancora non c’erano costrizioni o confini familiari o di società.
Peccato che, mentre questo si evince leggendo, Nina strenuamente difende l’”amore” e oltretutto persiste nell’affermare che no, non è un tradimento, è una liberazione del suo io.
«E quando Eva tornerà?»
«Affronterò la cosa.»
«La ami?»
«Sì, la amo. Ma questo, credimi, non pone limiti al mio amore per te.»
«Com’è possibile? E se io mi innamorassi di un’altra?»
«Sarebbe diverso.»
«Cosa c’è di diverso?»
«Io non mi sono innamorata di un altro uomo, ma di una persona molto diversa da te.»
Siore e siori, la giustificazione dell’anno!
Ma con Veronica non ha mica funzionato
Comunque.
Avviandoci verso la fine di questo percorso costellato di WTF vediamo Nina levarsi fino all’ultima briglia e regalare il suo corpo al Direttore e al Professore senza tanti complimenti.
Non gode, non le piace farlo, non vi trova appagamento fisico ma lo fa. Perché?
Fate il nostro quiz e barrate la casella che più vi piace!
a. È un’egocentrica vanesia alla disperata ricerca di soddisfazione personale derivata dall’adorazione altrui
b. È una signora di mezza età che ne ha piene le tasche di comportarsi da borghese e vuole provare l’ebbrezza di atteggiarsi a donna di mondo
c. È una deficiente
Alla fine Nina pare rinsavire: chiude con Direttore e Professore ed è intenzionata a dedicarsi di nuovo ai figli e a Michele (il quale, da bravo personaggio di un libro mediocre scritto coi piedi e senza alcuna logica né narrativa né morale, ha accettato la situazione e – non contento – ha persino spinto la moglie a rimanere amica della dolce Eva), e il libro si chiude con una bella cena in famiglia dove tutto sembra normale e bellissimo.
E io sono allibita.
Sono allibita dall’ipocrisia straripante di Nina, dalla sua visione distorta e sbagliata dell’amore e delle relazioni personali, sono schifata e inorridita dalla sua totale incapacità di comprendere ciò che fa e le conseguenze immani che avrebbe potuto scatenare (certo, è scontato che le conseguenze immani si sarebbero verificate in caso di credibilità, non è questo il caso ma fate finta).
La dittatura dell’inverno è una storia grottesca, uno strano avvicendarsi di pensieri confusi che vorrebbero asserire una cosa quando nel complesso quel che ne traspare è tutt’altro.
Il vocabolo amore è stato svalutato fino a uno spread che farebbe venire l’infarto a Padoan. È reiterato in continuazione senza cognizione di causa, Nina pare non capire che le sfumature delle emozioni non sono soltanto amore e amicizia ma c’è una vasta gamma intermezza, che però non viene sviluppata né tantomeno sfiorata.
I personaggi secondari sono figurine monodimensionali che ci vengono raccontate con freddezza, con paragrafi didascalici che vorrebbero farci entrare nella loro intimità ma non ci riescono, dandoci invece ritratti distaccati, esterni, privi di estensioni emotive.
Lo stile è meccanico, dilettantesco, ci vengono propinate pagine e pagine di dettagli senza nessuna importanza buoni giusto per riempire i tempi che secondo l’autrice erano morti (invece di saltare una riga abbiamo Nina che si mette a fare la crostata, o che parla con Tal Dei Tali in attesa che chiuda la libreria, o che ci spiega per filo e per segno cosa ha messo in valigia ogni singolo figlio), e un buon 40% dei dialoghi sembrano tratti da un saggio di letteratura ottocentesca.
Se vi aspettavate una prosa armoniosa e godibile lasciate pure perdere e passate oltre.
Tanti espedienti insapori aggiunti per allungare il brodo (la corrispondenza con Alessandro Profeta che ci mostra che anche i più beceri luoghi comuni possono essere espressi con il linguaggio più prolisso che esista) e un insieme di incoerenze e cliché che avrei preferito risparmiarmi.
Inoltre. Piccolo appello all’autrice.
Se non si sanno scrivere scene di sesso si può agire in un solo modo: non scrivendole.
D’accordo che siamo in periodo di 50 Sfumature e peggio di così è difficile raschiare il fondo del barile. Ma se si è costretti a usare sempre le solite cinque frasi, con i medesimi termini, per tutte le numerose scene di sesso di questo libro, tanto valeva evitare. Garantisco io che non avrebbe pianto nessuno.
In conclusione…
Dai, lo avrete capito come sto per concludere.
Valeria Ancione, Valeria Ancione è nata a Palermo nel 1966 e cresciuta a Messina, dove torna ogni anno per l’estate. Dal 1989 vive a Roma. Lavora come giornalista al “Corriere dello Sport-Stadio”, si occupa anche di calcio femminile. Ex giocatrice di basket, è sposata e ha tre figli. Di sé dice: «Amo la focaccia e la granita messinese, il pane palermitano con farina rimacinata e sesamo, i colori dell’alba sullo Stretto, i gechi appiccicati alle pareti, la menta e il basilico. Amo raccontare le donne. Non finisco un libro se non mi piace. Non guardo la tv. Il mio film preferito è Via col vento, la mitica frase “ci penserò domani, dopotutto domani è un altro giorno”. Ho una casa quasi sul mare sempre piena di gente che entra ed esce, va e ritorna. Contesto il fuorigioco e pertanto mi rifiuto di capirlo».