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Recensione la dodicesima vittima ...

Creato il 03 settembre 2010 da Isn't It Romantic?

RECENSIONE LA DODICESIMA VITTIMA (Blood Game) di Iris Johansen

RECENSIONE LA DODICESIMA VITTIMA ...
Prima edizione: 2009 by St. Martins’ Press

Edito in Italia da: Leggereditore, agosto 2010,

Formato: Trade paperback

Traduzione di: Giulia Antioco

Ambientazione: contemporanea, USA

Genere: romantic suspense/ paranormal

Voto/rating: 7+/10

Se volete saperne di più ecco la nostra news:

http://romancebooks.splinder.com/post/23218562

  

  

RECENSIONE OLTRE LE APPARENZE (Blood Born) di Kathryn Fox

RECENSIONE LA DODICESIMA VITTIMA ...

 

Prima edizione: 2009 by Harper

Edito in Italia da: Leggereditore, luglio 2010

Formato: Trade paperback

Traduzione di: Stefania Rega

Ambientazione: contemporanea, Australia

Genere: medical thriller

Voto/rating: 8,5/10

Se volete saperne di più ecco la nostra news:

http://romancebooks.splinder.com/post/23076309

  

Una linea scarlatta: sottile sul collo di Giverny Hart, profonda e leggermente sfrangiata su quello di Nancy Jo Norris. Due giovani corpi costretti a una morte precoce da carnefici invisibili e imprendibili. Il sangue di Giverny intrappolato all’interno, quello di Nancy Jo sparso e raccolto in sacrificio; un sangue che grida vendetta, un sangue che chiede giustizia. Un sangue che sporca le mani di uomini feroci e prepotenti, uomini che si arrogano il diritto divino di prendere vite solo per il proprio piacere e il proprio divertimento. Ed è il sangue ad unire due donne in due continenti diversi: Anya Crichton, patologa forense in Australia ed Eve Duncan, scultrice forense, negli Stati Uniti. Anya lotta contro il tempo e contro un sistema giudiziario che tutela i colpevoli e offre in olocausto le vittime, per salvare altre giovani donne dalla violenza dei fratelli Harbourn, stupratori e assassini per diletto che nessuno riesce mai ad incastrare. La piccola Giverny, nemmeno maggiorenne, non è riuscita a sopravvivere ed è stata inghiottita da un male dilagante che sembra più forte di qualsiasi bontà e da qualsiasi possibilità di vera redenzione, ma Anya non vuole né può arrendersi e non rinuncia a perseguire giustizia e verità. Così come Eve Duncan, nonostante gli anni di sofferenze, di umiliazioni e di vicoli ciechi, non abbandona le ricerche del cadavere della figlioletta settenne rapita da un assassino senza nome e senza volto, eppure presente come un cancro nella sua vita. Il ritrovamento di Nancy Jo Norris, sgozzata non lontano dalla sua abitazione, trascinerà Eve, il compagno Joe Quinn detective della polizia di Atlanta, e la figlia adottiva Jane in una nuovo incubo in cui gli spiriti dei morti e le anime dei vivi si uniranno per catturare Kevin Jelak, ennesimo serial killer prodotto dal sonno delle coscienze.

Considerato che sono dei thriller, non aggiungerò altro sulle trame di questi due nuovi romanzi, con cui ha felicemente esordito la nuova casa editrice Leggereditore, a partire dalle copertine accattivanti ed eleganti, dal formato maneggevole ma di pregio e soprattutto dal prezzo davvero contenuto. I libri pur nella diversità di stili, (asciutto, essenziale ed efficace quello della Johansen, meno controllato e con qualche sbavatura, ma più emotivo e nervoso quello dello Fox), e di genere, (romantic suspense con elementi paranormali quello della Johansen, medical thriller quello della Fox), ci raccontano una grande storia. Quella di donne che si battono per degli ideali, che credono che la giustizia non sia solo un concetto astratto ma qualcosa da conquistare ogni giorno, che non si lasciano corrompere né demolire, che non mollano quando tutti gli altri mollano, che cadono ma si rialzano sempre. Che si piegano ma non si spezzano. Irritandoci, facendoci riflettere, commuovendoci

Sono sorelle Anya e Eve, con le loro fragilità e le loro certezze, con la loro frustrazione di fronte a un mondo dominato dai maschi e da logiche maschili di sopraffazione ed aggressione. Non sono superdonne Anya ed Eve, sono donne capaci ma normalissime, donne che potremmo conoscere o che forse conosciamo senza saperlo. Così come le vittime in questi romanzi, quelle di cui nessuno parla nemmeno nella realtà, quelle che non hanno voce, diventano protagoniste qui e ci parlano. Descrivono un mondo da cui spesso, noi che leggiamo anche romance, cerchiamo di fuggire, sognando principi azzurri e regni dorati e lieti finali. Però, ogni tanto, è bello confrontarsi non con donne che trovano la realizzazione in un uomo né che hanno bisogno di essere salvate da un eroe di turno. Anya ed Eve si salvano da sole e gli uomini sono dei partner scelti consapevolmente e non per mero ed anonimo bisogno. Perché siamo noi donne che perennemente combattiamo, spesso senza appoggi, le battaglie più grandi.

Se volete leggere due bei libri coinvolgenti scritti da donne, per le donne e che nulla hanno da invidiare a quelli scritti da colleghi uomini provate La dodicesima vittima e Oltre la apparenze, il primo ha una parte sentimentale più sviluppata e centrale alla trama, il secondo è un vero giallo forense teso, coinvolgente ed emozionante che vi conquisterà. Io credo che le amerete...

ESTRATTO

1

Quella ragazza era piena di vita.
Era stata generosa con lui, e lui doveva ricompensarla.
Kevin Jelak ne sistemò accuratamente il corpo nudo sull’erba.
Le scostò dal viso i lunghi capelli biondi e chiuse quegli occhi azzurri puntati dritti al cielo. Ma non poté fare niente per la smorfia di orrore pietrificata sul suo volto. Non aveva compreso l’onore che le stava tributando. Be’, che c’era da aspettarsi? Nancy Jo Norris aveva solo diciannove anni, e non conosceva gli incubi che possono assalire una donna, gli incubi dai quali lui l’aveva salvata. Preferiva onorare donne più mature, con più esperienza, ma quella febbre l’aveva sopraffatto, ed era dovuto scendere a compromessi.
La febbre. Non hai compreso quanto sei stata fortunata, Nancy Jo. Avrei potuto tirare dritto se il tormento non fosse stato così intenso e non fossi stato costretto a confinarmi in un angolo di mondo così piccolo.
L’angolo di mondo che conteneva Eve Duncan. La meravigliosa, forte, tormentata Eve Duncan. Eve sapeva degli incubi. Ci era passata. Poteva far finta di desiderare la vita, ma in fondo al cuore bramava soltanto la liberazione che lui poteva offrirle. La liberazione che lui le doveva. Aveva capito che sarebbe stata lei la mossa finale del gioco. Ma Eve aveva distrutto la sua risorsa primaria, ed era suo dovere prendersi tutto il tempo e fare gli sforzi necessari per riservarle al più presto le sue attenzioni.

Guardò in alto verso la luna crescente, affilata come una falce nel cielo notturno. «Eve, mi ascolti?» bisbigliò. «Riesci a sentirmi?» Poi chiuse gli occhi e cercò di plasmare un’immagine di Eve nella sua mente. Capelli corti castano ramato, magra, corpo energico, viso intelligente e pieno di personalità.
«Non sarà facile con te. Ma prometto di essere caparbio.»
Nel frattempo, aveva quest’altra donna, questa Nancy Jo Norris, a cui tributare gli onori finali.
Prese il calice dorato che aveva riposto fra le mani di lei poggiate sui seni. «Sei libera, Nancy Jo. Prendi il volo.» Si chinò e la baciò lentamente sulle labbra. La sua anima si era appena allontanata e il suo corpo stava già diventando freddo.
«Mi hai perdonato? Comprendi il dono che ti ho fatto?»
Erano le domande che faceva ogni volta, ma senza alcun profitto. Doveva avere pazienza. Un giorno, una di loro gli avrebbe dato quella rassicurazione.
Magari Eve Duncan...
E ora, un ultimo dovere che era sempre un vero piacere.
«Nancy Jo Norris.» Sollevò il calice portandoselo alle labbra, lo sguardo ancora una volta sul cielo notturno e la fredda, affilata, scheggia di luna. «Dono per dono.»
Vuotò il calice.

La luna crescente, luminosa e fredda, gettava il suo gelido luccichio sui campi addormentati che affiancavano l’autostrada per l’aeroporto di Atlanta.
Freddo? Perché all’improvviso le era venuta in mente quella parola?, si chiese Eve. Stava andando a prendere Jane, la figlia adottiva, che arrivava da Parigi, e fino a qualche minuto prima si era sentita colma d’affetto ed eccitazione.
Che stupida. Era ancora colma dello stesso affetto e della stessa eccitazione. Questo brivido era solo perché era notte fonda, e probabilmente era uno strascico degli ultimi giorni che lei e Joe avevano trascorso alla palude sulle tracce del mostro, Henry Kistle. Era stato un periodo da incubo quello in cui il serial killer aveva preso in ostaggio una ragazzina per indurre Eve a seguirlo. Non aveva potuto fare nient’altro quando le aveva mentito e le aveva detto di essere stato lui a uccidere Bonnie, la sua bambina, anni prima.
L’incubo aveva assunto proporzioni enormi quando avevano scoperto l’isola dove erano state sepolte dozzine di bambini assassinati. Sì, ce n’era abbastanza per spaventare a morte chiunque.
Sebbene fosse consapevole che Joe Quinn si stava allontanando da lei ogni istante di più, continuava a cercare il corpo di Bonnie, della sua figlioletta uccisa. Tutti quegli anni d’amore e di vita insieme rischiavano di finire perché lei non riusciva a smettere di provare a riportare la sua Bonnie a casa. Anni prima, la sua bambina era stata rapita e probabilmente uccisa. Quando più tardi si scoprì che Ralph Fraser, reo confesso e condannato a morte per svariati omicidi, non era l’assassino, Eve aveva iniziato le ricerche per trovare l’uomo che aveva rapito sua figlia.
E Joe le era sempre rimasto accanto, offrendole sostegno e amore. Da principio come agente dell’FBI, poi con il dipartimento di polizia di Atlanta, ma sempre a fianco a lei. Era stato lì a tirarla fuori dall’abisso della depressione, a darle coraggio quando aveva deciso di tornare a studiare e diventare una scultrice forense, per mettere fine alle sofferenze degli altri genitori di bambini scomparsi. Era stato il suo amante, il suo amico, il suo rifugio.
Fino a quest’ultimo anno, quando le continue minacce a Eve lo avevano reso stanco e frustrato. Quell’ultimo pericolo di Henry Kistle forse era stata l’ultima goccia.
Non ci pensare. Pensa che stai per vedere Jane e che Joe non si è ancora allontanato da te, si disse. Lui stava bene quando era uscita di casa, quella mattina.
Magari sarebbe riuscita a risolvere il...
Il telefono squillò. Jane.
«Sono per strada» disse, rispondendo. «Il tuo volo è in anticipo? Pensavo di avere ancora una trentina di minuti.»
«Quasi sicuramente avrai un sacco di tempo in più» disse Jane. «Sono a Charlotte, nella Carolina del Nord. Il mio aereo ha avuto un guasto meccanico ed è atterrato qui. Stanno tentando di metterci su un altro volo. Aquanto pare ci sarà un ritardo di due o tre ore.»
«Maledizione. Be’, vengo lì e aspetto.»
«Non farlo. Torna a casa. Ti chiamo quando sto per imbarcarmi sul volo.»
Eve ci pensò su. «Probabilmente hai ragione. Potrei tornare indietro e farcela comodamente a incontrarti poi al ritiro bagagli.»
«Mi dispiace. Non volevo infilarti in questo casino. So quanto devi essere esausta. Non è proprio un bell’inizio per la mia visita.»
«Vederti è già un buon inizio.»
«Joe è con te?»
«No, l’ho lasciato a letto. Era persino più esausto di me.
Era al distretto la scorsa notte a cercare di identificare quei bambini morti che abbiamo trovato nella palude.»
Jane rimase in silenzio un momento. «Ma la tua Bonnie non era fra loro?»
«No.» Per un istante non riuscì a parlare, mentre ricordava l’agonia di quella scoperta. «Dio mio, pregavo di trovarla, Jane.»
«Lo so. Ecco perché sono saltata su quell’aereo per tornare a casa. Lo so che hai Joe, ma voglio essere lì per te.»
«Sì, ho Joe.» Dovette allontanare il telefono finché non riuscì a riacquistare il pieno controllo. Jane riusciva sempre a interpretarla. «E sarò strafelice di averti a casa. Chiamami.»
Mise giù.
Sperava di avere Joe. Dio, la vita senza Joe sarebbe stata vuota e senza trama né sostanza, fredda come la luna che splendeva sopra di lei.
Una sensazione di freddo, di nuovo. Non riusciva a scrollarsela di dosso.
Imboccò l’uscita e invertì la direzione di marcia. Sarebbe tornata a casa, alla villetta sul lago e da Joe. L’avrebbe abbracciato lasciando che la forza di lui la contagiasse. Allora forse, dopo un po’, il gelo sarebbe andato via.

In cucina le luci erano accese, Eve se ne accorse mentre si  avvicinava con l’auto alla villetta. Di sicuro Joe non era riuscito a riaddormentarsi dopo che se n’era andata. Probabilmente stava bevendo un caffè e aspettando che lei portasse Jane a casa.
Tuttavia non era in cucina, sebbene la macchinetta del caffè fosse accesa. Tazze, piattini e bricco del latte erano disposti sulla tavola, pronti. Non era nemmeno nella stanza da letto.
Che diavolo era successo?
Poi lo sentì salire gli scalini del patio.
Un momento dopo Joe entrò in casa. Indossava la vestaglia marrone e le pantofole, e aveva i capelli in disordine. Eve gliel’aveva
regalata lo scorso Natale, perché trovava che il marrone gli donasse. Faceva sembrare i suoi capelli scuri quasi color caramello e i suoi occhi di un brillante nocciola chiaro.
La sua ruvidezza era ben evidente di solito, ed era ancora lì, ma sembrava addolcita da quel colore caldo.
Lei sorrise. «Dove sei stato? Mi chiedevo cosa ti fosse successo.
Ho visto che il caffè era...» S’interruppe, sgranò gli occhi alla vista del volto di Joe. «Che c’è che non va?»
«Niente» disse lui secco. «Sono andato a fare una passeggiata in mezzo al verde.»
«A quest’ora? Vestito così?»
«Perché no? Non riuscivo a dormire.» Andò alla macchinetta del caffè e se ne versò una tazza. «Non c’è una legge che lo vieti. Garantisco. Chi può saperlo meglio di un piedipiatti?»
Il suo tono di voce era sgarbato e tagliente, e stava evitando di guardarla. Ma non era stato abbastanza svelto; lei aveva intravisto quell’espressione sul suo volto. Raramente Joe era pallido, ma il suo colorito adesso non era bello. La pelle appariva tirata sugli zigomi, e i suoi occhi castani brillavano e avevano un non so che di animalesco. Animalesco?
Joe non era mai animalesco. Poteva essere irascibile e impulsivo, ma era sempre in grado di controllarsi.
«Perché non riuscivi a dormire?»
«Come diavolo faccio a saperlo? Forse stavo sognando quei bambini assassinati sull’isola nella palude. È attorno a questo che ruota la mia vita, no? Bambini assassinati.»
Bevve un sorso di caffè. «O magari una sola bambina assassinata. La tua. Dal momento in cui ti ho incontrata, non si è parlato che di Bonnie. Ce n’è abbastanza per far impazzire chiunque.»
Rimase immobile, sconvolta. Era vero, in tutti quegli anni il fulcro delle loro vite era stato la sparizione e la morte di Bonnie, ma quella sua collera era arrivata come uno schiaffo.
Supponeva che questo non avrebbe dovuto ferirla, perché sapeva bene che la pazienza di Joe si stava esaurendo. Si era impegnato con tutte le sue forze e le sue risorse intellettuali per cercare di darle ciò di cui aveva bisogno, e vederla costantemente in pericolo lo stava esasperando. «Hai ragione, certo. Nessuno sa meglio di me cosa ti ho fatto passare.
Hai tutto il diritto di voler scappare da me e dalla situazione.»
Si girò di scatto verso di lei. «Non voglio scappare da te»
sbottò. «Sei l’unica donna che abbia mai amato. Dalla prima volta che ti ho vista, ho capito che dovevo stare con te.
Quando l’FBI mi ha mandato ad Atlanta per investigare sulla sparizione e sulla probabile morte della tua Bonnie, chi diavolo avrebbe immaginato che non sarei più stato capace di lasciarti? Ma avevi perso una dolce bimba di sette anni che significava tutto per te. Eri fragile e afflitta, e ciononostante così maledettamente forte da lasciarmi senza parole.
Volevo combattere tutti i tuoi fantasmi e darti tutto quello che volevi.»
«Devi farlo» disse lei con voce rotta. «Solo che è stata una strada a senso unico. Io non ho sfidato nessun fantasma per te. Meriti qualcuno che lo faccia.»
«Fanculo. Sapevo in che guaio mi stavo cacciando quando ci siamo messi insieme.» I suoi occhi bruciavano sul volto tirato. «Ma non sono stato in grado di uccidere il tuo fantasma, e stanotte ho iniziato a chiedermi se non mi divorerà.»
«Stanotte?» Non era in quello stato quando l’aveva lasciato per andare all’aeroporto. Aveva percepito come un leggero allontanamento, ma il suo atteggiamento ora era violento e pieno di tensione repressa, sul punto di esplodere. Riusciva quasi a sentire un’agitazione frenetica girargli attorno.
«È successo qualcosa mentre ero via?»
«Certo che no. Ti ho detto che sono solo andato a fare due passi.» Sistemò la sua tazza sul bancone della cucina e fece per andarsene. «E sono stanco di subire il terzo grado. Sto bene. Lascia perdere, Eve.»
«Talmente bene che non hai chiesto come mai Jane non era con me quando sono tornata.»
Lui volse lo sguardo di nuovo verso di lei. «Sta bene?»
«Sì, il suo aereo ha avuto un guasto meccanico ed è dovuto atterrare a Charlotte. Mi chiamerà quando è pronta per imbarcarsi di nuovo.»
«Bene. Vado a fare una doccia, poi faccio un paio di telefonate e me ne vado al lavoro presto. Ho delle pratiche da sbrigare.»
«Non provare a uscire da questa stanza» gli intimò Eve risoluta.
«Qualcosa non va. Lo so, maledizione. Dimmelo.»
«Se c’è qualcosa che non va, posso occuparmene da solo.
Sono in grado di lottare contro i miei fantasmi.» Le parole di Joe erano convulse mentre procedeva a grandi passi verso la porta. «Non ho bisogno d’aiuto.»
«Joe, per l’amor di dio, parla con me.»
Non rispose. Lei guardò la porta della stanza da letto chiusa dietro di lui. La stava lasciando fuori, mentalmente e fisicamente.
Avvertì il dolore che cresceva dentro di lei. Aveva capito che c’erano guai all’orizzonte, ma pensava di avere il tempo per cercare una via d’uscita. Cosa diavolo era successo perché la situazione peggiorasse così?
Il suo cellulare squillò. Jane.
Impiegò qualche secondo per rimettersi in sesto prima di rispondere alla chiamata. «Non mi aspettavo di risentirti così presto.»
«Sono riusciti a riparare l’altro aereo. Mi sto imbarcando adesso. Vuoi che prenda un’auto a noleggio?»
«Non essere stupida. Arrivo. Ci vediamo al ritiro bagagli.»
Jane rimase in silenzio un istante. «Hai una voce strana.
Va tutto bene?»
«Certo. Starò ancora meglio quando ti vedrò. Ciao.»
Riattaccò.
Anche a distanza Jane è capace di intuire il mio stato d’animo, pensò Eve. Tentennò quando diede un’occhiata alla porta chiusa della stanza da letto. No, non sarebbe entrata per dire a Joe che stava andando all’aeroporto. La chiusura di quella porta era stata risoluta e definitiva. Gli avrebbe dato un po’di tempo, sperando che quei fantasmi di cui parlava si sarebbero dileguati nell’oscurità.
Lasciò la casa e corse giù per gli scalini del patio, verso la macchina. Ma gli occhi le bruciavano di lacrime, e dovette aspettare un istante prima di lasciare il vialetto d’ingresso. Le mani strette sul volante mentre fissava confusa il buio là fuori.
Il dolore di Joe riguardava Bonnie e l’ossessione di Eve di trovare l’assassino di sua figlia. Una caccia che era andata avanti per anni. Lo stava logorando. Non poteva aspettarsi che si immedesimasse in lei. Non aveva mai avuto un bambino.
Avevano preso Jane da una famiglia affidataria quando aveva dieci anni, e da quel momento, si era dimostrata più matura della sua età. Era diventata la loro amica, non la loro bambina. Al contrario di Eve, Joe non aveva mai avuto la meravigliosa esperienza di crescere una ragazzina. Per questo non avrebbe mai capito perché Eve non poteva arrendersi.
Perché il ricordo di Bonnie non l’avrebbe mai abbandonata.
Quella sera, la notte prima del rapimento di Bonnie era ancora vivida nel suo ricordo, come se fosse successo il giorno prima.

Bonnie che si fiondava nella stanza da letto di Eve con indosso il pigiama giallo coi clown arancioni. I boccoli rossi scomposti ondeggiavano sulle sue spalle e il suo faccino era acceso da un sorriso radioso.
«Mami, Lindsey dice che sua madre le farà mettere la maglietta di Pippo domani al parco per il picnic della scuola. Mi fai mettere la mia maglietta di Bugs Bunny?»
Eve sollevò lo sguardo dal libro di Letteratura inglese aperto sulla scrivania. «Si chiede per favore, tesoro. E sì, puoi mettere Bugs domani.» Lei sorrise. «Non vogliamo mica che Lindsey ti metta in ombra.»
«Non mi importerebbe. Lei è mia amica. Hai detto che dobbiamo sempre volere il meglio per i nostri amici.»
«Sì, proprio così. Ora corri a letto.»
Bonnie non si mosse. «Lo so che stavi studiando per l’esame, ma potresti leggermi una storia?» Aggiunse poi con fare accattivante:
«Pensavo magari una molto, molto corta?»
«La nonna adora leggerti le storie, tesoro.»
Bonnie venne più vicino e sussurrò: «Voglio bene a nonna. Ma è sempre speciale quando me la leggi tu. Solo una corta...»
Eve diede un’occhiata al libro di Letteratura. Sarebbe rimasta in piedi fin dopo mezzanotte visto che si trattava di studiare per quell’esame.
Guardò il volto supplichevole di Bonnie. Oh, al diavolo.
Bonnie era il motivo per cui Eve stava studiando per il diploma, tutto sommato. Era la ragione di ogni cosa, nella sua vita. Perché negarlo? «Corri a scegliere un libro di storie.» Mise da parte il manuale di Letteratura e si alzò.
«E non dev’essere per forza una storia breve.»
L’espressione di Bonnie avrebbe potuto illuminare Times Square. «No, prometto...» Corse fuori dalla stanza. Tornò in pochi secondi con un libro di Dr. Seuss. «Questo dura poco, e mi piacciono le rime.»
Eve si sedette sulla sedia a dondolo con l’imbottitura blu che usava da quando Bonnie era appena nata. «Sali su. Anche a me piace Dr. Seuss.»
«Lo so che ti piace.» Bonnie si arrampicò sulle ginocchia di Eve e l’abbracciò stretta. «Ma visto che è un libro così corto, mi canti...
potrei avere anche la mia canzone?»
«Penso che sia una richiesta ragionevole» concesse Eve con tono solenne. Quelle due avevano le loro piccole tradizioni, e la sera, fin da quando ancora gattonava, Bonnie adorava duettare con Eve. Eve avrebbe cantato il primo verso, e Bonnie il successivo.
«Che si canta stasera?»
«All the Pretty Little Horses.» Si sistemò sulle ginocchia di Eve e l’abbracciò più forte che poteva. «Ti voglio bene, mami.»
Le braccia di Eve la stringevano. La cascata di riccioli di Bonnie era soffice e profumata contro la sua guancia, e il corpicino irresistibilmente vitale e pieno di salute era addossato contro il suo.
Dio, era fortunata. «Anch’io ti voglio bene, Bonnie.»
Bonnie lasciò la presa e si rigirò goffamente per accoccolarsi nella curva del braccio di Eve. «Puoi cominciare, mami.»
«Hushabye, don’t you cry» cantò Eve dolcemente.
La vocina sottile di Bonnie cinguettò: «Go to sleep, little baby.»
Era un momento così unico, così tenero. Le braccia di Eve strinsero Bonnie ancora di più, mentre cantava sentiva un nodo in gola. «When you wake, you shall have...»
La voce di Bonnie era solo un soffio. «All the pretty little horses...»

Il capo di Eve si abbandonò, per fermarsi sul volante.
Controllati, pensò. Non poteva star lì seduta e crogiolarsi nel passato. In quel momento sembrava che la sua vita stesse andando a rotoli. Doveva andare avanti. Doveva affrontare il problema con Joe. Doveva prendere Jane all’aeroporto.
Rialzò la testa e accese l’auto.
E doveva sforzarsi di lasciar fuori quel ricordo dolceamaro che echeggiava ancora nella sua mente e nel cuore.
All the pretty little horses...’

«Accidenti, mi sei mancata così tanto.» Eve abbracciò Jane. «Come fai a essere così bella? Sembra che tu abbia trascorso la notte in una beauty farm. Dopo un viaggio così lungo, dovresti essere distrutta e in disordine. Ame succede sempre.»
«Sono in disordine, ma a Parigi ho fatto un nuovo taglio di capelli che dà un tocco chic anche all’aria trasandata»
Diede un’occhiata al nastro dei bagagli. «Credo di aver visto la mia sacca. Torno subito.» Corse verso il nastro.
Quanta energia, pensò Eve. Jane aveva tutto: bellezza, talento, e un carattere amabile, il che non escludeva una buona dose di determinazione. Si era laureata solo due anni prima e stava già facendosi un nome come artista nelle gallerie di Stati Uniti ed Europa. Era stata una benedizione che Eve e Joe fossero riusciti a prendere Jane con loro quando era una bambina di strada. Aveva arricchito le loro vite, allora e ancora adesso. Era uno splendore...
Il cellulare di Eve squillò. Joe?, pensò mentre tirava fuori il telefonino dalla borsa. Fa’ che sia Joe, sperò.
Megan Blair. Mise da parte la delusione. Doveva essere importante. Ciononostante era ancora indecisa se prendere la chiamata. Non c’era dubbio che Megan fosse una vera sensitiva, ma Eve aveva scelto di prendere le distanze per un po’. E poi perché stava chiamando a quell’ora del mattino ?
«Eve, stai bene?» La voce di Megan Blair vibrò carica d’angoscia non appena Eve prese la chiamata. «Dio santo, mi dispiace. Non sapevo che... È tutto a posto?»
«Di cosa stai parlando?» Eve guardò Jane, che stava tirando via dal nastro la sua sacca di tela nera. «Tutto bene. Ho appena preso Jane all’aeroporto. È appena arrivata da Parigi.»
«Bene. C’è qualcuno con te. Dille di non lasciarti.»
«Non le dirò niente del genere. Perché dovrei?»
«È questa maledetta iattura dell’influsso medianico.
Credevo tu fossi al sicuro. Ero in stato d’incoscienza, per cui ho pensato che le mie emozioni non avrebbero avuto alcun effetto.»
«Non sei chiara, Megan.»
«Ora cerco di calmarmi.» Fece un bel respiro. «Ricordi che ti ho detto che avevo quest’altro dono? Dono? No, non è il termine corretto. Finora è stata più che altro una maledizione.
A ogni modo, quando provo emozioni profonde, per me è pericoloso toccare chiunque.»
«Sì, mi sono accorta che trattavi tutti come se avessero la peste.»
«È per via dell’influsso. Qualsiasi dote extrasensoriale possegga la persona che tocco si attiva. Lettura del pensiero, capacità di guarigione... quel che sia. Ma non tutte le menti sono in grado di gestire quest’improvvisa liberazione dei loro poteri.»
«La follia. Sì, mi hai raccontato tutta la storia. Ma hai anche detto che non dovevo preoccuparmi perché eri in coma quando alla palude ti ho toccata.»
«Ma mi è appena venuto in mente che anche allora ero in qualche modo consapevole di quei bambini morti seppelliti sull’isola. Il che significa che il coma non era abbastanza profondo. Perlomeno, non penso che lo fosse. In realtà non lo so.»
«Sssh. Ti preoccupi per niente, Megan.»
«Non dirmi così.» Megan rimase in silenzio per un attimo.
«Guarda, so che probabilmente non mi credevi quando ti ho raccontato di questa strana faccenda dell’influsso.
Accetti che, nel luogo in cui sono stati uccisi, io riesca a percepire l’eco di ciò che è successo a quei bambini, perché eri lì, mi hai visto viverlo sulla mia pelle. Ma l’altra dote è troppo inverosimile per te. Be’, è inverosimile anche per me. Ma non permetterò che qualcuno ne rimanga ferito se posso evitarlo. Ti ho toccata. Ti ho stretto le mani. A volte basta questo. Signore, non voglio ferirti, Eve.»
Jane stava venendo verso di lei trascinando la sacca, aveva sul viso un’espressione perplessa.
«Non sono ferita» la tranquillizzò Eve. «Non mi accadrà niente, Megan.»
«Sperò di no. Ma se succede qualcosa di strano, non preoccuparti.
La risolveremo insieme.»
«Non penso ci sarà bisogno di risolverla. Mi sento perfettamente normale, Megan. D’altronde hai detto che il periodo del pericolo era passato da tempo, quando ti ho lasciata all’ospedale.»
«Ma questo è stato prima di rendermi conto che la mia emotività era ancora attiva anche se ero in coma. Magari l’effetto è stato ritardato. Di’ a Jane di stare con te in ogni caso. Per ogni evenienza. Lo faresti per me?»
«Non mi farò tenere la mano da lei, Megan. Andrà tutto bene. Se c’è un problema, prometto di chiamarti. Cerca di rilassarti.»
«Non se ne parla. Maledizione, so che tutto questo ti sembra folle. Diavolo, è folle. Ma non posso lasciar perdere finché non so per certo che tu non sei stata contagiata. Ricontrollerò più tardi.» Megan riattaccò.
«Di che si trattava?» chiese Jane. «Sembrava proprio che la stessi tranquillizzando. E perché dovrei tenerti la mano, Eve?»
«Non dovresti, è questo il punto.» Eve si girò e s’incamminò con lei verso l’uscita. «Sto bene.»
«E perché Megan Blair non pensa che tu stia bene?
Dovrebbe saperlo. È un dottore, no?»
Eve scosse il capo. «Medicina d’urgenza. Ma per ora non esercita.»
«Troppo occupata con questa faccenda del vudu?»
Vudu. Sì, ecco cosa aveva pensato Eve la prima volta che aveva incontrato Megan. Credeva che tutti i poteri extrasensoriali fossero idiozie e che chiunque dichiarasse di possederli fosse un ciarlatano. Ma aveva visto troppo in quella palude mentre davano la caccia al killer, Henry Kistle, per sottovalutare cio che le diceva Megan.
Eccetto quell’ultima confidenza sull’influsso. Eve non riusciva ancora ad accettare quella possibilità come reale.
Era troppo inverosimile, come aveva detto Megan.
«Capisco che tu possa chiamarlo vudu. Ma Megan non è... Io la rispetto, Jane.»
«Allora chiedo scusa per essere stata scortese. Chi lo sa, mi rendo conto che là fuori c’è più di quanto riusciamo a vedere o toccare. È solo che una come Megan Blair va al di là delle mie capacità di comprensione. Dov’è parcheggiata l’auto?»
«Nel posteggio per soste brevi.» Iniziò ad attraversare la strada. «Ho portato la jeep. Mi aspettavo più bagagli, o magari uno o due borsoni.»
«No, ho lasciato tutto a Parigi. Tornerò lì, o comunque possono spedirmelo.» Jane aveva la fronte corrugata. «Perché Megan pensava che dovrei tenerti per mano? Mi hai detto che Kistle era morto. Non è più un pericolo, giusto?»
«Giusto.» Jane non avrebbe lasciato perdere, pensò Eve.
Era in modalità protettiva, o non avrebbe volato fin lì da Parigi solo per stare con Eve. «E non c’è pericolo, punto. Megan sta semplicemente rimuginando su qualcosa.»
«Cosa?»
Raccontaglielo, ma non farne una tragedia, si disse Eve.
«Pensa che potrei andare fuori di testa.» Eve fece una smorfia.
«O diventare io stessa una sacerdotessa vudu.»
«Improbabile.»
«È quello che le ho detto.»
«Perché penserebbe qualcosa del genere?»
Okay, limitati a spiegarlo e poi chiudila qui, pensò. «Ti ho detto che Megan ha certi... poteri.»
Jane scosse il capo. «In alcune circostanze può sentire i morti o, almeno, echi di quanto gli è successo. Un po’ un’idiozia.» Si fermò. «È difficile da credere per me. Anche se capisco che magari tu sei più aperta a questo genere di cose.»
Jane sapeva che il ricordo di Bonnie era ancora una parte importante della vita di Eve. «È stato difficile anche per me.
Pensavo che Megan fosse come una di quelle finte sensitive che mi illusero subito dopo che Bonnie scomparve, anni fa.
Mi ci è voluto un bel po’per ammettere a me stessa che i suoi poteri erano reali. Ma ero con lei quando ha localizzato la tomba di un ragazzino nei boschi dell’Illinois. L’ho vista andare in un profondo stato di shock nella palude qui in Georgia, mentre cercava di aiutarci a trovare Kistle e quei bambini che aveva ucciso.»
«Immagino che ‘reale’ sia un termine piuttosto ambiguo in casi come questo. E gli amici morti di Megan le hanno fatto sapere che era il caso di tenerti d’occhio?»
«No. Pare che Megan abbia un altro potere. Ha detto che...» Eve si strinse nelle spalle. «Ha detto di essere una sorta di tramite, e che se tocca qualcuno mentre è in uno stato di sovreccitamento emotivo, questo potrebbe liberare i poteri medianici latenti nella persona toccata. Secondo lei, alcuni non riescono a reggere. Danno di matto.»
«Questo sì che è inverosimile.»
«‘Inverosimile’ sembra essere la parola della serata»
osservò Eve mentre apriva la jeep. «L’ha usata Megan, l’ho usata io. Ora tu, Jane. Megan era consapevole che mi sarei rifiutata in ogni modo di credere a quest’assurdità dell’influsso medianico. Ha assolutamente ragione.» Scivolò al posto di guida. «Specialmente dal momento che a quanto pare sono una candidata, e non mi sento affatto matta. Né avverto nuovi strabilianti poteri mentali.»
«Non hai bisogno di altri poteri mentali» disse Jane mentre si accomodava nel posto del passeggero.
«Probabilmente sei di gran lunga la migliore scultrice forense del mondo. E sei la donna più intelligente che conosco.
»
«Non sono male quanto a quoziente intellettivo, ma non posso dire lo stesso della mia intelligenza emotiva. Non sembra che io impari dai miei errori.»
«Sei abbastanza intelligente da tenerti stretto Joe» disse Jane. «Il che mi sembra ottimo.»
«Sono stata fortunata... finora.» Il suo sorriso svanì. «Ho te, e ho Joe. E nessuno di voi ha intenzione di cacciarmi dalla sua vita. Questo è davvero meraviglioso.»
Jane rimase in silenzio per un attimo. «Come va fra te e Joe?»
Sapeva che quella domanda sarebbe saltata fuori. «Bene, per quanto ci si possa aspettare, considerando che io ho un’ossessione che domina le nostre vite.» Distolse lo sguardo da Jane. «Avevamo davvero bisogno che quell’Henry Kistle fosse l’assassino di Bonnie, oltre che di tutti quegli altri bambini sull’isola. Joe è... stanco di tutto questo. Chi può biasimarlo?
Io no di certo.» Sorrise forzatamente mentre usciva in retromarcia dal parcheggio. «Ma sarebbe felice di vederti. Sei una ventata d’aria fresca ogni volta che fai irruzione nelle nostre vite.»
«E come va il lavoro?»
«Ho finito una ricostruzione facciale giusto un paio di giorni fa. Joe ha detto che forse dovrò lavorare sui teschi di uno o due dei bambini sepolti sull’isola, nella palude di Okefenokee, se non siamo in grado di identificarli. Farò qualunque cosa pur di riportarli a casa.»
Jane annuì. «Dal momento che non hai potuto riportare a casa la tua Bonnie.»
«Ci spero ancora. In effetti, ho altri due nomi che potrebbero fare al caso mio. Paul Black. Kevin Jelak. Dovrò proseguire nelle ricerche non appena ne saprò di più su di loro.»
Vide Jane che la guardarva meravigliata, e fece un mezzo sorriso. «Sì, so che ho appena finito di affrontare Henry Kistle. Ma non era l’uomo giusto. Non è servito a riportare la mia Bonnie a casa. Quindi devo andare avanti. Capisci? Io sono ossessionata.»
«Forse.» La mano di Jane accarezzò le sue poggiate sul volante. «Ma è un’ossessione comprensibile. Riguarda qualcuno che hai amato, Eve.»
Eve si commosse. «Cristo, sembra un film.»
Jane ridacchiò. «E io ti ho messa in imbarazzo. Scusa. A Parigi devo aver preso dei modi un po’troppo sentimentali.»
«Non mi hai messa in imbarazzo.» Jane poteva dire a Eve quello che voleva. Era felice di averla accanto. Jane era una pittrice di successo, la sua vita era piena di impegni e, come aveva detto Eve, entrava e usciva dalla sua vita, lasciando solo sconfinato affetto e splendidi ricordi. E Eve non avrebbe desiderato niente di diverso. L’ultima cosa che voleva era interferire con la vita di Jane o riaverla indietro.
Non poteva trascinarla nell’oscurità che in questo momento sembrava avvicinarsi. Perciò via l’oscurità, e prova a rendere la conversazione leggera, si propose.
«Allora, raccontami che cos’altro hai preso a Parigi. Qualche ragazzo alto, sexy e affascinante?»
2
Non appena giunsero di fronte alla villetta, Joe uscì fuori sul patio. Aveva indosso un vestito color kaki e una camicia bianca.
Eve era tesa. Magari andrà meglio. Magari con Jane sarà tutto diverso, pensò.
«Joe!» Jane saltò fuori dalla jeep non appena Eve spense il motore. Corse ad abbracciarlo. «Accidenti, che bello vederti.»
«Anche per me è bello vederti» la salutò con le braccia strette attorno a lei. «Anche se avresti fatto meglio a restare a...»
«Eve mi ha già fatto tutte le raccomandazioni del caso» lo interruppe. «Quindi sta’tranquillo.» Fece un passo indietro.
«Ho sentito che si sono verificati un po’d’imprevisti mentre cercavate di...»
Non appena guardò il viso di Joe si bloccò. «Joe?»
Lui si rivolse prontamente a Eve. «Metto su il caffè. Vado dentro a prendere il telefono, poi devo andare.»
«Come vuoi.» Eve scese lentamente dalla jeep. Joe era in ombra, e lei non poteva vederne il volto, ma poteva vedere l’espressione di Jane. Non le piacque. «Speravo che saresti rimasto per una tazza di caffè. Mi sono fermata a comprare le ciambelle.»
«Grazie, ma no ho tempo. Devo andare al distretto.» Ritornò verso la porta. «Volevo solo vedere Jane prima di andare.
Prendo il telefono e scappo.»
Jane fece un mezzo passo in avanti, verso di lui. «Joe, aspetta. Voglio...»
Ma era già scomparso dentro casa.
Jane si girò di scatto rivolgendosi a Eve. «Pensavo avessi detto che era tutto a posto.»
«Non ho detto ‘a posto’.» Salì gli scalini del patio. «Ho detto che andava bene, per quanto ci si potesse aspettare. Niente per cui allarmarsi.» Ma era allarmata e doveva nasconderlo a Jane.
Un compito non facile. «E ha sul serio del lavoro da sbrigare al distretto. Perché te la stai prendendo tanto?»
«Era... teso. Il suo volto era... E non mi ha guardato.»
«Sono sicura che non significa niente. Guarda, forse hai bisogno di stare un po’ da sola con lui. Vado dentro a preparare le ciambelle. Appena esce lo fermi. Okay?»
Jane annuì. «Devo esserne sicura. Non è da Joe trattarmi in questo modo.» Si sedette sul dondolo del patio. «Entro fra un minuto.»
Eve annuì. «Prenditi il tempo che ti serve. Non vado da nessuna parte.» Entrò in casa e andò dritta in cucina. Da’ a Jane l’occasione di parlare con Joe senza interferire, pensò.
Forse sarebbe riuscita a farsi dire da lui perché si stava comportando in quel modo, le faceva paura. Non poteva credere che i loro problemi compromettessero il rapporto fra Joe e Jane. Doveva essere qualcos’altro. Ma Jane si sarebbe accertata che fosse tutto a posto. Non aveva timore di confrontarsi in modo diretto con i problemi e le relazioni umane.
Signore, era contenta di averla di nuovo a casa.

Nell’istante in cui Joe uscì sul patio, Jane scattò in piedi.
«Okay» esordì. «Che diavolo c’è che non va, Joe?»
«Non capisco che intendi.» Joe distolse lo sguardo da lei e lo rivolse verso il lago. «Non c’è niente che non va. Eve e io abbiamo attraversato un periodo difficile nelle ultime settimane.
Probabilmente te ne ha parlato durante il tragitto di ritorno dall’aeroporto.»
«Mi ha detto che non è stato il serial killer della palude a uccidere Bonnie, e che sull’isola hai trovato una vera e propria carneficina di bambini assassinati da quell’uomo.»
Si fermò. «Non mi ha detto che ti eri allontanato da lei in questo modo. Ha minimizzato la cosa. Ma tu non la guardi nemmeno. E non solo lei. Ho fatto qualcosa che ti ha fatto arrabbiare ultimamente?»
«Come potresti? Sei stata a Parigi nella tua galleria d’arte.»
«Forse pensi che sarei dovuta restare qui a sostenere Eve.
Ci ho provato, Joe. Lei non ne ha voluto sapere.»
«Non sto rimproverando niente a nessuno.» Il sorriso di Joe era forzato. «Guarda, dobbiamo soltanto lavorarci un po’ su.» Cercò il suo orologio da polso. «Ed è ora che vada al distretto e mi dia da fare per mettere ordine in quel caso.
Ancora non abbiamo identificato tutti quei corpi.»
«E non mi dirai cosa c’è che non va» riprese Jane senza mezzi termini. «Stai scappando. Non raccontarmi balle, Joe.
Tu e Eve in pratica mi avete cresciuta. Ti conosco.»
«Sì?» Si avviò giù per gli scalini del patio. «Allora sai che sono un poliziotto e quando ho un lavoro da fare, lo faccio.
Chiamerò te e Eve più tardi per dirvi a che ora sarò a casa.»
Sentiva lo sguardo preoccupato di Jane su di sé mentre si metteva alla guida. Appena mise in moto l’auto, vide Eve uscire di casa e fermarsi sul patio, accanto a Jane. Due donne forti, intelligenti, le due donne che amava di più al mondo.
E a causa della loro forza e intelligenza doveva evitarle come la peste, ora. Non aveva bisogno che focalizzassero quell’acuta intelligenza e quella perspicacia su di lui. Avrebbero potuto vedere qualcosa che non voleva far vedere a nessuno.
Salutò con un gesto della mano uscendo in retromarcia dal vialetto. Sarebbe stato bene. Erano stati soltanto lo stress e il logorio degli anni trascorsi a cercare la ragazzina di Eve ad aver innescato l’allucinazione di questa mattina all’alba.
Non stava dando di matto. Dal momento che riconosceva il problema, il problema non esisteva. Non ci sarebbero state altre allucinazioni.
Non ci sarebbero state altre visite del fantasma di Bonnie.

«Perché non me l’hai detto, Eve?» Jane guardò Joe che s’immetteva in strada. «Non l’ho mai visto così. So che per ora avete dei problemi, ma Joe era piuttosto... distante.»
«Non potevo spiegarti quello che non sapevo» rispose Eve. «Stava bene quando sono uscita per venirti a prendere all’aeroporto.» No, non bene. Joe e il loro rapporto erano stati messi a dura prova, e il non aver trovato Bonnie su quell’isola, mettendo così fine all’agonia degli anni di ricerca, non aveva migliorato in alcun modo la situazione. Ma lui non era l’uomo freddo e distante che aveva accolto Eve e Jane quando erano tornate alla casa sul lago. «Sì, non siamo per niente sulla stessa lunghezza d’onda, ma ci stiamo lavorando.»
«Ah sì?»
Si strinse nelle spalle. «Ci stiamo provando. Non è detto che ci riusciremo. Se non ce la facciamo, sarà per colpa mia.
Devo trovare Bonnie, ma è la mia ossessione, non quella di Joe. Non capisco perché non se ne va.»
«Sì che lo sai. Ti ama. Sei il suo punto di riferimento»
disse Jane. «E non se ne andrà.»
«Ci è andato vicino stavolta» mormorò Eve. «Te l’ho detto, aveva bisogno che trovassi Bonnie. Vuole chiudere la faccenda, Jane.»
«Ti stai dando da fare per trovare una soluzione. Finché c’è una speranza, non si arrenderà.» Jane l’abbracciò. «Diceva che avete attraversato un periodo difficile. Magari si trattava di questo stamattina, una reazione a quell’orrore sull’isola. Non so come diavolo tu ce l’abbia fatta.»
«Avevamo Megan. Lei è stata l’unica che ha rischiato di non farcela. Ha avuto uno shock violento ed è rimasta in coma per ore.»
«Così mi hai raccontato.» Fece scivolare le braccia attorno alla vita di Eve e la ricondusse dentro casa. «Anche se alcune delle cose che mi hai raccontato sono abbastanza difficili da credere. Dài, prendiamoci una tazza di caffè e discutiamone.»
«Non posso convincerti a fidarti di lei, Jane. Pensavo che Megan fosse una ciarlatana, ma non lo è.» Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso triste. «Garantisco che non ci tiene a sentire quei bambini morti. Non può evitarlo. Li ha sentiti, e ci ha condotti a quell’isola. Poteva morire. Diceva di non saperne molto su come funzionano questi poteri medianici.
Da poco tempo si è resa conto di avere delle qualità da medium, tutto qui.»
Jane versò il caffè nella tazza di Eve. «Hai ragione. Ho qualche difficoltà con questa faccenda di Megan. Sono propensa a credere che tu abbia semplicemente desiderato che fosse vero.» Si fermò un attimo, prima di aggiungere, convinta:
«Perché in quel caso ti avrebbe aiutata a trovare Bonnie.»
«Non le chiederei di farlo.» Bevve un sorso di caffè. «Signore, spero di non chiederglielo mai. So cosa significherebbe per lei.» Fissò Jane seduta all’altro capo del tavolo. «Lei crede che un giorno o l’altro glielo chiederò. Mi ha già detto che non lo farà, sostiene che per me sarebbe ancora peggio conoscere i dettagli sulla morte di Bonnie.»
«Però! Ho già un’altra considerazione di lei. Forse ha ragione» disse Jane. Alzò la mano per fermare Eve. «Spero con tutto il cuore che trovi Bonnie. Ma non voglio che  trovi un nuovo assortimento d’incubi insieme a lei.»
Eve rimase in silenzio per un attimo. Persino Jane intravedeva i pericoli di cui Megan le aveva parlato. Anche Eve li intravedeva, ma trovare Bonnie... Riportarla a casa...
«Eve.»
L’espressione di Jane era piena d’amore, piena di comprensione, di preoccupazione. «Ascolta, Eve. Vorrei dire che so come ti senti, ma nessuno può saperlo.» Allungò le braccia sul tavolo e prese le mani di Eve fra le sue. «Quando ero bambina, ero persino un po’ gelosa che tu potessi amare Bonnie così tanto. Non ho mai voluto prendere il suo posto. Volevo solo trovare un modo per portare via il tuo dolore. Ma sapevo che non avrei mai potuto.» Scosse la testa mentre Eve schiudeva le labbra per parlare. «E quando sono cresciuta, ho cominciato a capire. Perdere un figlio... Probabilmente non capirò fino in fondo cosa significhi finché non avrò un bambino.
Ma anche se non posso condividere ciò che provi, voglio che tu sappia che sarò sempre con te, qualsiasi cosa succeda.»
«Lo so.» Eve sentì una stretta allo stomaco per l’emozione.
«E benedico il giorno in cui ti abbiamo trovata.» Si sforzò di sorridere. «E ora basta. Sei appena arrivata, e già sei in pena per Joe, per me, e cerchi di risolvere tutti i problemi del mondo. Ora dimenticati di noi e parlami del tuo lavoro. Stai lavorando a un nuovo quadro?»
«No, sono stata troppo impegnata a fare pubbliche relazioni per la galleria.» Fece una smorfia. «Sai quanto mi piace.
Non sarebbe compito mio...» S’interruppe quando il telefono di Eve squillò. «Rispondi pure. In realtà non vuoi stare a sentire delle mie tribolazioni con i giornali e la TV.»
«Sì che voglio. Non te la caverai così.» Diede un’occhiata al display. «È Montalvo.»
Jane inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Montalvo è ancora in giro?»
«Sì, ma è sotto controllo.» Per quanto si potesse controllarlo.
Premette il tasto di risposta. «Sono occupata, Montalvo.»
«Perché mi saluti sempre come se ti avessi aggredito?» La voce di Luis Montalvo era sorpresa. «Quando sai che voglio solo il meglio per te.»
«Sto prendendo un caffè con Jane. Che vuoi, Montalvo?»
«Ah, la tua Jane. La bella Jane MacGuire. Non sapevo fosse tornata da noi.»
«È appena arrivata con un volo da Parigi.»
«Allora non ti trattengo. Volevo solo dirti che uno dei miei investigatori mi ha comunicato che potrebbe più o meno localizzare Kevin Jelak.»
Si bloccò. «Cosa?»
«Be’, più o meno, a grandi linee. Ha rintracciato un acquisto effettuato con la carta di credito a Garsdell, in Alabama.»
In Alabama. Subito a cavallo della frontiera. «Così vicino...» disse Eve.
«Forse troppo vicino. Mi stavo chiedendo che ci faceva a un passo da casa tua. E perché proprio ora?»
«Giusto la notte scorsa stavo pensando di darmi da fare per trovare lui e Paul Black.»
«Sapevo che questa sarebbe stata la tua prossima mossa, non appena avresti scoperto di aver dato la caccia al killer sbagliato. Ecco perché ho fatto un paio di telefonate. È un piccolo passo in avanti, niente su cui fiondarsi con entusiasmo... per il momento.»
«Allora perché non hai aspettato di avere qualcosa di più promettente?»
«Perché ti darò sempre quello che vuoi, non quel che penso sia meglio per te. È questa la differenza fra me e Quinn.»
Si fermò. «A proposito, come sta Quinn?»
«Deluso come me di non aver trovato Bonnie.»
«Allora sono sicuro che condividerai con lui la notizia di questa nuova opportunità all’orizzonte.»
«Sì, condivido tutto con Joe.»
«Un uomo fortunato» commentò Montalvo. «Ma io aspetterei un po’prima di dargli la notizia. Forse ha bisogno di un periodo per riprendersi.»
«La tua preoccupazione è commovente.»
«Io sono preoccupato per davvero. Ti ho detto che sarei diventato il migliore amico di Quinn. Dopotutto, lui mi ha salvato la vita.»
«Sì, è vero.»
«E gliene sono veramente grato.» Il suo tono di voce era sincero. «Ma devo bilanciare gli obblighi verso di te e i doveri verso il mio nuovo migliore amico. È una bella sfida.
Forse faresti meglio a passarmi Quinn così posso dirglielo io stesso.»
«È al distretto.»
«Allora dovrò contare sul fatto che glielo riferirai tu più tardi» ribatté lui. «Non appena ne so qualcosa in più ti faccio sapere. O magari chiamo il mio nuovo migliore amico.»
«Ti sei innervosita» osservò Jane, quando Eve mise giù il telefono. «Montalvo riceve sempre una risposta chiara da te. Anche se non sempre è positiva.»
«Quasi mai positiva. Infastidita, sempre» puntualizzò Eve. «Dice che forse ha localizzato uno degli altri uomini nella lista dei sospettati per l’omicidio di Bonnie.»
«Forse? Ti sta sventolando una carota sotto il naso?»
«Può darsi. Ma non mi mentirebbe.»
«Ti fidi di lui?»
«Sì.» Montalvo era intelligente, complicato, pericoloso,  e qualche volta spietato, ma non era un bugiardo. Il loro rapporto era complesso, e lei avrebbe preferito che scomparisse dalla sua vita. Eppure sotto molti punti di vista la capiva meglio di chiunque altro. Montalvo era un trafficante d’armi in Colombia, prima che Eve lo incontrasse. Aveva cercato per lungo tempo il corpo della moglie, che era stata assassinata, e aveva coinvolto Eve nella ricerca in cambio dei nomi di tre uomini che potevano aver ucciso la sua Bonnie. Dal momento che lei e Montalvo avevano condiviso un lutto simile e la medesima ossessione, quel legame era duro a morire. «Mi fido di lui. Ma ogni volta che mi distraggo un attimo fa qualcosa che mi coglie alla sprovvista.»
«Per esempio?»
«Dice di voler essere amico di Joe.»
«Cosa?» A quel punto Jane scoppiò a ridere. «Sta scherzando. Giusto? Joe è maledettamente geloso di Montalvo.
Gli taglierebbe la gola senza pensarci due volte.»
«No, non sta scherzando.»
Jane la squadrò impensierita prima di fare un fischio di sorpresa. «Che bastardo schifoso. E che bel modo di insinuarsi nella tua vita.»
«Sì. Ma non funzionerà.» O magari sì, pensò Eve. Joe aveva salvato la vita a Montalvo, e questo per Montalvo faceva la differenza. Eve la pensava come Jane, ma a conti fatti nessuno poteva conoscere Montalvo, se non Montalvo stesso.
«Perlomeno mi passa ancora le informazioni.»
«Jelak.» Jane annuì. «Cosa sai di lui?»
«Non molto. Solo che era uno dei tre uomini che secondo gli investigatori di Montalvo potrebbero aver ucciso Bonnie. Viveva qui ad Atlanta quando lei scomparve, ma si spostò e se ne persero le tracce parecchi anni fa. Ma presto ne saprò molto di più.»
«Tramite Montalvo?»
«Se devo proprio rivolgermi a lui...» Finì il suo caffè. «Ma io intendevo Joe. Lo chiamerò e gli chiederò di controllare quell’acquisto con carta di credito in Alabama.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Ora perché non te ne vai a letto e ti riposi un po’? Devi essere esausta.»
«Un po’ stanca lo sono.» Jane si alzò e cominciò a sparecchiare la tavola. «E penso che nemmeno questo caffè riuscirà a tenermi sveglia. L’ho mischiato col latte per alleggerire la caffeina.» Prese il bricco del latte e lo ripose nel frigorifero. «Anche se avrei preferito di gran lunga prenderlo...» Si interruppe, lo sguardo sul ripiano più basso del frigo. «Che diavolo è quella?»
«Che cosa?»
«Quella tazza. È oro oppure ottone o... È messa bene in fondo e non l’ho quasi vista. La luce l’ha colpita e...» Si abbassò e allungò un braccio dentro il frigo. «Penso che contenga qualcosa.»
«Non so di che stai parlando.» Eve si alzò e attraversò la cucina. «Uso soltanto contenitori per alimenti, e di certo non sono d’oro né d’ottone. E nelle ultime due settimane non abbiamo cucinato o conservato...» Si interruppe quando vide l’oggetto che Jane teneva in mano. «Che cos’è?»
«È quello che ti ho chiesto.»
La coppa d’oro nella mano di Jane era un calice che sembrava uscito da una festa medievale. Aveva un’intricata incisione con fregi e scene che parevano ambientate in un’antica sala da banchetti.
«Non l’ho mai visto prima» disse Eve categorica.
«Joe?»
«Glielo chiederò. Ma non è da lui. Non è un collezionista, e questo sembra uno di quegli oggetti che si trovano nel negozio di souvenir di un castello. O in una di quelle riviste d’arte che vendono cimeli di film medievali.»
«Non sono d’accordo. È realizzato con cura, non è un oggetto da quattro soldi.» Jane rigirava il calice fra le mani.
«Bell’incisione. Non riesco a capire bene cosa contenga...»
Sollevò la tazza all’altezza del naso. «Sembra una pasta rosso scuro, essiccata... ma odora... di rame.»
«Rame?» Eve prese il calice e guardò il contenuto rosso scuro. Fu colta da un brivido. Aveva già sentito quell’odore, ed era difficile da dimenticare. Sollevò il calice e l’odorò.
Senza dubbio rame. Il suo stomaco si contrasse, cercando di tenere a bada la nausea.
Jane stava osservando la sua espressione. «È quel che penso?»
Eve abbassò lo sguardo sulla coppa. Un bel calice.
Splendente, decorato con scene di tempi perduti rappresentate con maestria. Eppure tutto ciò a cui riusciva a pensare era la chiazza rosso scuro al suo interno.
«Sangue.» Poggiò in fretta il calice sul bancone della cucina.
«È pieno di sangue.»

«Sicura?» disse Jane.
«Sì, il sangue coagula molto in fretta, ma questo calice dev’essere stato pieno fino all’orlo, una volta.»
«Che facciamo?» chiese Jane. «Sei sicura di non averlo mai visto prima?»
Eve scosse la testa. «No.» Aggiunse secca: «Di solito non tengo a portata di mano calici pieni di sangue.» Deglutì. «E mi fa una paura tremenda. Mi sento... violata. Com’è arrivato in casa mia?» Si sforzò di guardarlo di nuovo. «A ogni buon conto, prima di tutto bisognerebbe scoprire se quel sangue è umano.»
«E anch’io, come te, mi chiedo come sia arrivato qui»
disse Jane.
Eve fece un cenno d’assenso col capo. «Joe e io siamo stati entrambi fuori casa nei giorni in cui eravamo alla palude di Okefenokee. Sarà successo allora.» Aggiunse: «Ma so che Joe ha attivato l’allarme prima che ce ne andassimo.»
«Gli allarmi si possono disattivare. E il mio cane, Toby,
non c’era. Hai detto che se ne sta occupando ancora Patty?»
«Già. E sono contenta che non ci fosse. Sarà anche un mezzo lupo, ma penso sia più un golden retriever. Non ha il temperamento di un killer.»
Jane annuì. «C’è qualcosa di molto inquietante nell’idea di un calice pieno di sangue. Una cosa da vampiri. Mi fa pensare a Bela Lugosi.»
Quel paragone era fin troppo vicino a quello che stava pensando Eve. «Bisognerebbe indagare su questo. A quanto ricordo, i vampiri non usavano calici. Prendevano il sangue direttamente dalla vittima.»
«Comunque sia.» Jane distolse lo sguardo dal calice.
«Suppongo che si tratti di una specie di scherzo. Il tuo mestiere potrebbe renderti un bersaglio per questo genere di cose.»
Eve scosse la testa. «Mi piacerebbe crederci, ma non ci riesco. È troppo... brutto.»
«Non c’è dubbio. Voglio liberarmene» disse Jane. «Liberiamoci di quel dannato coso e facciamo analizzare il sangue.
E voglio che mandino qualcuno dal dipartimento qui a proteggerti. Chiami tu Joe o lo faccio io?»
«Lo faccio io.» Eve compose il numero del cellulare di Joe. Squillò cinque volte prima che rispondesse la segreteria telefonica.
Si accigliò mentre riattaccava lentamente. «Non risponde. Ma deve essere sulla strada per il distretto. Forse è al telefono. Proverò di nuovo fra qualche minuto.» Si diresse verso le stanze da letto. «Nel frattempo, facciamo un giro per casa e vediamo se troviamo altri graziosi ricordini.»

«La scena del crimine è fra gli alberi nei pressi del lago Allatoona. Vicino Kellogg Creek» disse a Joe il detective Gary Schindler quando lo chiamò al cellulare.
«Perché io?» chiese Joe. «Sto ancora lavorando al rapporto conclusivo su Kistle.»
«Il capitano vuole che te ne occupi tu. Dannazione, ci vorrà tutti su questo caso. È il mio giorno libero, e mi hanno chiamato a casa dicendomi di portare il culo là fuori. La vittima è Nancy Jo Norris, e sarà pieno zeppo di giornalisti e TV.»
«E chi è Nancy Jo Norris?»
«La figlia del senatore Ed Norris. Frequentava il secondo anno all’Università della Georgia e aveva solo diciannove anni.»
«Merda.»
«Già. Una ragazzina. La scientifica dovrebbe essere lì per quando arriveremo.»
«Vengo subito.» Joe attaccò il telefono e girò a destra verso l’autostrada. Tanto meglio non dover andare direttamente al distretto. Nell’attuale stato mentale, sbrigare delle pratiche l’avrebbe mandato fuori di testa.
Pazzo. Una parola scomoda da usare in questo momento, dopo quanto era successo quella mattina prima dell’alba.
Le allucinazioni erano senza ombra di dubbio segnali d’instabilità.
E vedere lo spirito di Bonnie Duncan rasentava la follia.
Fanculo. Non c’era niente che non andasse in lui. Era stato sotto stress per mesi, anni, ed era tutto collegato alla figlia di Eve, scomparsa anni prima. Quest’ultima delusione nella ricerca dell’assassino di Bonnie e del corpo della bambina aveva fatto vacillare il suo equilibrio, e aveva avuto qualche momento di confusione. Non sarebbe più accaduto.
E probabilmente questo era collegato al fatto di lavorare con Megan Blair per trovare Kistle. Tutta quella roba medianica sembrava fin troppo autentica. Adesso era tornato nel mondo reale, e sarebbe stato bene, non appena fosse riuscito a scrollarsi di dosso quel...
Il suo cellulare squillò. Era Eve. Esitò prima di rispondere.
Era chiaro che si era accorta del suo turbamento quella mattina. Che altro avrebbe potuto fare? Joe si era comportato in modo del tutto irrazionale, e in più loro due erano troppo legati per non essere consapevoli di ogni sfumatura dei sentimenti dell’altro. Era per questo che, in pratica, era scappato da casa. Non c’era motivo di farla preoccupare con le sue misteriose allucinazioni.
Ma non poteva ignorare la telefonata.
«Tutto okay?» chiese lei quando Joe rispose. «Non riuscivo a rintracciarti.»
«Ho ricevuto una chiamata per andare direttamente su una scena del crimine al lago Allatoona.»
«Allora non ti trattengo.» Eve si fermò. «Jane ha trovato una cosa un po’ macabra sul ripiano in fondo al frigorifero.
Un calice d’oro con un’elaborata incisione. Tu non ne sai niente, vero?»
«Cosa? Dannazione, no. Che ha di macabro?»
«C’è del sangue dentro. Non so se è sangue umano. Manderesti qualcuno a prenderlo per analizzarlo?»
Joe rimase di stucco. Questa era la mattina dei misteri, ma il sangue era reale e metteva i brividi più di qualunque allucinazione.
«Appena chiudo la telefonata. E manderò qualcuno a sorvegliare il posto. Finché non arriva lì fai attenzione.»
«Oh, puoi starne certo. La situazione non mi piace. Specie ora che Jane è qui» rispose Eve. «Devono aver piazzato il calice lì mentre noi eravamo alla palude. Potrebbe trattarsi di qualche svitato che ha letto di me e del mio lavoro e ha voluto mettermi paura. Ma chiunque l’abbia fatto è stato in grado di eludere il sistema d’allarme. Ora chiamo la ditta perché vengano a risolvere il problema e ad accertarsi che non si verifichi di nuovo.» Eve si fermò. «Ha chiamato Montalvo.
Diceva che i suoi investigatori hanno rintracciato un acquisto con la carta di credito di Kevin Jelak in una cittadina vicino al confine, in Alabama.»
«Montalvo non perde tempo» commentò Joe con tono sarcastico. «Kistle è appena morto, e lui già si affanna perché tu continui la tua ricerca.»
«Montalvo non altererebbe mai delle prove» lo difese lei.
«È solo una strana coincidenza che d’un tratto Jelak stia facendo la sua comparsa.»
«Io non credo alle coincidenze.» Svoltò per Kellogg Creek.
«Controllerò questo Kevin Jelak, il sospettato principale.» Si fermò. «Sono stato un po’ brusco con te stamattina. Mi dispiace. Credo di essere un po’ nervoso.»
«Parecchio nervoso. Sei pronto a raccontarmi il perché?»
Joe ignorò la domanda, dal momento che non aveva intenzione di dirle quello che lei voleva sapere. «Chiamami se hai altri problemi.»
«Spero proprio di no» gli rispose Eve fredda. «Ne abbiamo avuti già abbastanza per cominciare la giornata. E non sono neanche le otto di mattina.» Riattaccò.
Sì, la giornata era iniziata con un terremoto, e stava continuando con la stessa piega, pensò Joe, a partire dal momento in cui si era alzato dal letto alle cinque e aveva messo su il caffè, aspettando che Eve e Jane tornassero a casa dall’aeroporto.
Il ricordo di ciò che era avvenuto dopo lo assalì, ma cercò di rimanere calmo e lucido.
Era tutto nella norma, finché non era uscito sul patio. Si era messo a fissare il lago e a pensare a Eve.

Guardami.
Ascoltami.
Apriti.
Che diamine gli stava accadendo?
«Ciao, Joe.»
Si girò di scatto verso il dondolo.
Una ragazzina era accoccolata lì sopra. «Ho desiderato così tante volte di venire a trovarti, ma non potevo. Sono così felice che ora sia
possibile.»
Nella semioscurità del patio non c’era che una sagoma indistinta, non avrà avuto più di sette o otto anni. L’abitazione più vicina era lontana chilometri. Com’era arrivata lì? «Chi sei?» chiese lui.
«Non dovresti essere qui. Dov’è la tua famiglia?»
«Sta arrivando. Ma la mia famiglia sei anche tu, Joe. Mi hai allontanata dalla tua vita per tanto tempo, ma qualcosa... è successo.
Ora sei più aperto verso di me.»
Ascoltami. Guardami. Apriti.
«Sì, va tutto bene, Joe.»
«No, non va bene. Non va bene per niente. Dovresti andare a casa. I tuoi genitori si staranno preoccupando.»
Lei scosse la testa. «Sai che non succederà. Tu sai chi sono.»
«Col cavolo che lo so.» I raggi dell’alba stavano a poco a poco ricacciando la pozza d’oscurità che circondava il dondolo, sfiorando i riccioli rossi e il faccino della bambina. Non riusciva a smettere di guardarla. Era una follia. Eppure non si sentiva un folle. Avvertiva un misterioso senso di... pace. «Chi sei?»
«Andrà tutto bene, Joe. Te lo prometto.»
«Chi sei?»
Ora la luce del sole la circondava come prima l’oscurità, svelando la maglietta di Bugs Bunny che indossava.
«Ma Joe.» Un sorriso radioso le illuminò il volto e giunse fino a lui, per stringerlo in un abbraccio, circondarlo d’amore. «Sono Bonnie.»

Follia. Quel senso di pace era svanito, si era voltato ed era corso giù per gli scalini del patio in preda al panico.
Non era reale. Era stata un’allucinazione. Era tutta un’assurdità, e non c’era ragione perché si sentisse così... Il cuore gli batteva forte. Di cosa aveva paura? Non di quella ragazzina sul dondolo. Lei non era reale.
Pazzia. Il crollo nervoso era il nemico, ecco perché era così nel panico. Era sempre stato talmente sicuro di ciò che era reale e di ciò che era fantasia. Era il fondamento del suo carattere, e ora quel fondamento vacillava, si sgretolava.
Si era forzato a guardare indietro verso il dondolo sul patio. Nessuna bambina dal sorriso radioso. Aveva avvertito che un po’ di tensione lo abbandonava. Era ancora scosso e allarmato, ma il panico iniziale se n’era andato. Sapeva che si trattava solo di un’allucinazione momentanea, e che non si sarebbe mai ripetuta.
Proprio come ne era sicuro adesso, alcune ore più tardi, mentre guidava verso il lago Allatoona. Non c’era stata alcuna apparizione della figlia di Eve. Lo stress, la fatica degli ultimi giorni e l’immaginazione si erano mischiati per fargli perdere la testa per un paio di minuti. Ma ora era tornato a fare quello che gli riusciva meglio, e persino il pensiero di Bonnie stava svanendo.
Qualche minuto più tardi, parcheggiò l’auto dietro il furgone del medico legale. Era tornato alla sua realtà. Non bella. Spesso inquietante.
Oggi però, le dava il benvenuto.
Scese dall’auto, passò sotto il nastro giallo, e si fece strada verso la riva dove si trovava il detective Gary Schindler.
«Brutta storia.» Appena si fu avvicinato Schindler si volse a guardarlo in faccia. Con un cenno del capo indicò il corpo della ragazza circondato dalla scientifica, qualche metro più in là. «Era così giovane.»
«È nuda. Sappiamo se è stata stuprata?»
«Non ancora. Indossava jeans e una felpa rossa dell’Università della Georgia. I suoi vestiti sono stati piegati sotto quell’albero. Con grande cura. Il corpo e i capelli sono stati sistemati con cura anch’essi.» Rimase in silenzio per un istante. «Un omicidio rituale?»
«Può darsi.» Joe fece un prudente passo in avanti per dare un’occhiata più da vicino. Povera ragazza. Gli occhi erano chiusi, ma l’espressione era straziata dall’orrore. «Le hanno tagliato la gola» osservò.
«Di nuovo, con molta cura» rispose Schindler. «Un taglio netto alla giugulare, o almeno così ha detto il medico legale.
Le escoriazioni sui polsi sono state causate da una corda.
Dev’essere stata legata, prima o durante l’omicidio.»
«Non c’è abbastanza sangue per una ferita di quel genere.»
Schindler fece un cenno d’assenso col capo. «Oh, il sangue c’era. Il bastardo l’ha ripulita tutta per renderla carina.
Ma non ha ripulito bene il calice. Lì ha lasciato delle tracce.»
Joe puntò lo sguardo sul volto di Schindler. «Calice?»
«La mano destra.» Schindler la indicò. «È nascosta per metà sotto il corpo, ma nella mano ha una specie di calice d’oro o d’ottone. Credo abbia delle incisioni sopra. Non possiamo muoverlo finché la scientifica non ha finito, ma si vede il sangue all’interno della coppa. Ecco perché sono propenso a credere che sia un omicidio rituale.»
Joe si irrigidì.
Una coppa d’oro, finemente incisa, aveva detto Eve.
Si accovacciò per guardare meglio il calice nella mano di Nancy Jo Norris.
L’oro brillava alla luce del primo mattino. Non riuscì a capire cosa rappresentassero, ma sul calice c’erano senza dubbio delle incisioni.
Oh cazzo.

 PER GENTILE CONCESSIONE DI LEGGEREDITORE. 


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